Thomas Sowell e l’affirmative action

Carneade, chi era costui? Il pensiero che attraverso la testa di Don Abbondio ha reso famoso il filosofo di Cirene più di quanto non lo abbia fatto il suo pensiero che lo pone fra i più importanti scettici. Ricordiamo  che ebbe anche un importante ruolo politico quale membro di una delegazione ateniese a Roma. Il suo nome resta comunque usato come sinonimo di sconosciuto. La stessa cosa, oggi, ben potremmo dirla di tutti coloro che non hanno l’onore di avere una loro pagina su Wikipedia, ovvero di non averla in alcune lingue.

È il caso, ad esempio, di Thomas Sowell; anche di lui potremmo chiederci chi è costui mancando la pagina in italiano sull’enciclopedia libera. Possiamo presentarlo come economista ottantottenne che ha vinto, Nobel a parte, tutti i più importanti premi per la propria materia. Di scuola apertamente liberista, si pone su posizioni che faranno storcere il naso a molti. Basti pensare che ha paragonato la parola razzismo al ketchup, che va bene praticamente con tutto al punto che chiunque ne chieda una prova diventa automaticamente razzista. Parole piuttosto forti, se non venissero pronunziate da un negro, nato nel 1930 in North Carolina, uno stato già schiavista, e cresciuto a New York, più esattamente ad Harlem. Apparentemente un controsenso che però fa riflettere sulle parole e il pensiero di Sowell.

Allo stesso modo può destare perplessità la sua posizione sulla candidatura di Hillary Clinton a presidente degli Stati Uniti: “quelli che vogliono l’elezione di Hillary Clinton per avere il nostro primo presidente donna sembra che non abbiano compreso assolutamente niente dal disastro di avere scelto un presidente su basi demografiche e come simbolo”. Parole decisamente pesanti e che rivelano la sua opinione sulla presidenza Obama.

In ogni caso, le posizioni di Sowell che inducono a una profonda riflessione, sono quelle decisamente critiche nei confronti della affirmative action, mal tradotto in italiano con “azione positiva”, vale a dire le politiche che mirano a promuovere partecipazione e integrazione di persone con determinate identità di razza, genere o sessuali, in contesti che li vedono in minoranza. Le riserve di genere o, nel caso delle donne, le quote rosa. In sintesi Sowell non è favorevole a riserve basate su razza o altro elemento “di minoranza”. Questo, considerando che una scelta inclusiva forzata, porterebbe a privilegiare un elemento che nulla ha a che vedere con le qualifiche, l’istruzione e la capacità effettiva. In alcuni casi, è stato rilevato come le affirmative action possano risolversi in discriminazioni alla rovescia.

Sowell rileva come queste azioni siano inutili, potendo condurre a far ridurre la competizione per il raggiungimento di determinate posizioni, con conseguente impoverimento per la società nel suo complesso, che perderebbe gli elementi più validi, oltre a incrementare l’animosità tra i gruppi. Si tratta di osservazioni forti ma interessanti quando, non solo per posizioni di rilievo, si portino avanti politiche di privilegio che effettivamente fanno passare in secondo piano le capacità del singolo. Ovviamente tutto deve essere letto nei differenti contesti sociali e nei momenti storici. Non possiamo certo oggi paragonare la situazione negli Stati Uniti a quella degli anni prima di Martin Luther King. Le osservazioni di Sowell hanno una loro valenza laddove si consideri come alcune minoranze portino avanti le loro posizioni come pretese e non come esercizio di diritti solo sulla base proprio del loro elemento di differenza.

Anche su altre posizioni il pensiero di Sowell non sembra, a prima vista, quello che viene definito politically correct, ad esempio quando sostiene che “gran parte della storia sociale del mondo Occidentale nelle tre decadi passate ha comportato la sostituzione di ciò che funzionava con ciò che sembrava buono. In settore dopo settore: crimine, educazione, casa, relazioni razziali – la situazione è peggiorata dopo che le nuove brillanti teorie venivano messe in pratica. La cosa sorprendente è che questa storia di fallimenti e disastri non ha scoraggiato gli ingegneri sociali né li ha screditati”.

Si tratta di giudizi assai severi e che vanno decisamente contro posizioni apparentemente progressiste ma che, probabilmente, non hanno fatto bene i conti con la realtà e lo stato reale delle cose. E non meraviglia quindi come l’economista nato in uno stato e in un periodo che non favorivano certo integrazione e accesso allo studio per quelli come lui, e cresciuto in un quartiere non certo di élite, sostiene anche che la ragione per cui esistono i poveri non è sfruttamento o discriminazione, ma semplicemente la loro scelta di non voler produrre. E non riesce a comprenderne il perché.

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