Birmania, il Nobel per la Pace nega la pulizia etnica dei Rohingya

Stupri, omicidi, villaggi bruciati, profughi. Sono sempre più numerosi i rapporti stilati da organizzazioni internazionali che denunciano gli atti di violenza commessi dall’esercito birmano sulla minoranza musulmana: i Rohingya. Lo scorso 6 Aprile, dopo un lungo silenzio,il Premio Nobel per la Pace e Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, ha smentito, durante un’intervista rilasciata alla BBC, che ci fosse stata una “qualsiasi pulizia etnica” di questa minoranza musulmana. “Penso che l’espressione ‘pulizia etnica’ sia troppo forte per definire quello che sta succedendo”, ha dichiarato l’ex oppositrice. Sicuramente c’è una chiave di interpretazione in questa stridente posizione del Premio Nobel per la Pace.

In un video girato da un poliziotto nel Novembre 2016 in un villaggio dell’ovest della Birmania, si vede chiaramente un ufficiale picchiare violentemente con un bastone un contadino riverso a terra. Un terzo ufficiale continua con una serie di calci sul suo viso prima di prendersela con un’altra vittima. Queste scene girate con tanta sfrontatezza hanno spinto il Governo di Rangun ad aprire un’inchiesta ed arrestare diversi poliziotti coinvolti nelle violenze perpetrate alla comunità rohingya residente nello Stato di Rakhine. La discriminazione e il maltrattamento dei Rohingya non è una novità in Birmania. Questa popolazione apolide non ha accesso al mercato del lavoro, all’istruzione, alla sanità ed è nel mirino dei movimenti nazionalisti buddisti che guadagnano sempre più popolarità. Se le violenze commesse dal’esercito su questa minoranza, la più perseguitata del Mondo, si moltiplicano, è la decisione presa lo scorso Gennaio da Rangun  di indagare su questi fatti ad essere inedita, perché apre uno spiraglio sul riconoscimento dei possibili abusi commessi dalle forze di sicurezza. L’estate scorsa Aung San Suu Kyi era riuscita anche a nominare l’ex Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan a capo di una commissione consultiva incaricata a prevenire i conflitti religiosi nello Stato di Rakhine. Perché allora quelle parole ai microfoni della BBC?

Sicuramente Aung ha le mani legate. Non è la Presidente del Paese, è Consigliera di Stato, l’equivalente del nostro Primo Ministro. Se è vero che tiene le redini dei ministeri degli Esteri, dell’Istruzione, dell’Elettricità e dell’Energia, è anche vero che è l’esercito ad avere il controllo sui ministeri chiave come quello della Difesa, degli Interni e quello che gestisce i territori periferici tra i quali appunto lo Stato di Rakhine. L’esercito può fare ciò che vuole in quella zona senza che il Governo possa veramente intervenire. Ricordiamo inoltre che l’esercito detiene anche il 25% dei seggi in Parlamento. Aung San Suu Kyi era un’icona ed è diventata una politica. Oggi viene confrontata alla realtà. Deve governare un Paese del quale non controlla le leve principali. Non ha i mezzi per risolvere molti importanti problemi. A questo si aggiunge la difficile situazione nella quale si trova. Ci sono sullo sfondo una serie di problemi strutturali gravi che ha ereditato da 50 anni di dittatura militare. Il Paese subisce la perdita del 30% degli investimenti stranieri, il prezzo del gas è sceso. Aung deve contemporaneamente portare avanti la transizione democratica, riconciliare i diversi gruppi etnici e religiosi, deve far fronte alla crescita del nazionalismo buddista ostile alle popolazioni minoritarie, soprattutto i musulmani. La sua elezione ha fatto nascere molte speranze, ma trasformare in un anno un Paese tanto diviso quanto povero in un modello di democrazia è veramente un’impresa titanica.

Il Premio Nobel per la Pace non utilizzerà quel poco capitale politico che ha per difendere i Rohingya. E’ una triste realtà. I suoi elettori non provano alcuna simpatia per i Rohingya che sono un po’ considerati come i Rom qui da noi. Anche durante la campagna elettorale si era rifiutata di prendere posizione in loro favore. Aung San Suu Kyi è incuneata tra la comunità internazionale che denuncia quello che succede e il suo elettorato che non giudica sia una problema prioritario del Paese. La pressione della comunità internazionale è percepita molto male. Come abbiamo detto, dalla pubblicazione del video dei poliziotti le esazioni si moltiplicano e il territorio è bloccato. Si parla di omicidi, stupri collettivi, anche di minori, di torture, villaggi incendiati. Dobbiamo pensare che la pubblicazione del video dell’attacco abbia peggiorato la situazione e dato fuoco alle polveri e la reazione di Rangun sia stato un “contentino” per la comunità internazionale

Molti osservatori, dopo aver visionato i rapporti pubblicati da Human Rights Watch, Amnesty International e Nazioni Unite, ritengono che quell’attacco sia stato utilizzato  per riportare l’attenzione sulla questione. La comunità internazionale ha puntato molto su Aung San Suu Kyi. Icona della Democrazia, donna carismatica, fragile, Premio Nobel per la Pace. I suoi sostenitori all’estero sono coscienti delle difficoltà che deve affrontare per guidare il suo Paese, sono più tolleranti che con l’ex Regime militare. Lei stessa non ha la facoltà di risolvere il problema dell’esercito che porta avanti la guerra contro l’ascesa del campanilismo buddista, etnico-nazionalista  e intransigente che fa continuamente crescere l’onda islamofoba da almeno cinque anni. Nel 2015, il Partito di Aung San Suu Kyi non ha presentato candidati musulmani proprio tenendo conto di questa emergenza.

I musulmani e i Rohingya sono il capro espiatorio di molti problemi. Ecco perché è necessario che la comunità internazionale continui a fare pressione. Aung San Suu Kyi ha bisogno di tutto il suo sostegno per far fronte ad un esercito onnipresente abituato a comandare da più di mezzo secolo.

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