Caos Sud America, gli oppositori di Maduro in piazza a Caracas

Se dovessimo esprimere una valutazione generale e complessiva sull’attuale tenore dei rapporti tra popolazioni e governanti nel mondo, ne uscirebbe un quadro tutt’altro che confortante. I meccanismi di rappresentanza democratica sono inceppati, forse perché di rappresentanza effettiva ne rimane sempre meno. Il trend dominante evidenzia un distacco allarmante tra base e vertice, che si traduce in una conseguenziale assenza di dialogo e di punti di collegamento: in sintesi, oggi viviamo la crisi delle democrazie, anche nelle forme e nei Paesi in cui – un tempo – invece erano presenti e forti. Di chi è la colpa? Delle strumentalizzazioni populiste o delle elìte di oligarchie, peraltro in lotta fra loro, che vogliono imporsi autocraticamente dall’alto? Sarebbe come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina.

Se l’Europa sperimenta la contestazione no global, dai tratti spesso poco pacifici, la conclamata violenza del terrorismo jihadista e la nascente intolleranza dei popoli autoctoni verso le “invasioni” migratorie e le scelte politiche che le tutelano, in Sud America, di certo, non ridono: parliamo di un Continente che ha sempre convissuto con miseria, sottosviluppo, dittature a oltranza, sovente pilotate dagli interessi del “vicino” statunitense con la fomentazione di insurrezioni e rivoluzioni, condite da traffico d’armi, droga ed esseri umani, quali principali fonti “in nero” per finanziare il più ampio ventaglio possibile d’imprese illecite. Ce n’è per tutti i gusti, in queste aree particolarmente predisposte alle guerre civili: in passato, su carta stampata e telegiornali troneggiavano le gesta di organizzazioni di guerriglieri, come Sendero Luminoso in Perù, e di fronti rivoluzionari, come quello Sandinista in Nicaragua, contrapposto ai contras sostenuti dalla Cia; apprendevamo delle nefandezze di dittatori militari ex-golpisti, a loro volta deposti e giustiziati da altri golpisti; c’era Cuba e la rotta socialista di Fidel Castro, autentica spina nel fianco di Washington; nel 1973, in Cile, il generale Augusto Pinochet rovesciava il regime social-democratico di Salvador Allende; tre anni più tardi, in Argentina, nei decenni precedenti lacerata dal dualismo peronista e anti-peronista, il nazionalismo restauratore inaugurava, col colpo di Stato condotto dal generale Rafael Videla, il regime totalitario più sanguinoso nella storia del Paese; ancor prima, nel 1937, in Brasile, svettava il repressivo Estado Novo di Getulio Vargas; e come dimenticare, infine, la più recente e caricaturale figura del butterato generale panamense Manuel Noriega, Cara de Piña (Faccia d’Ananas) per gli amici?

La storia centro e sudamericana, come si può facilmente intuire, ha da sempre viaggiato su binari ben precisi; a conferma di ciò, ancora oggi abbiamo notizia delle attività delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), che solo da poco avrebbero stretto, almeno in teoria,  un accordo con i governativi di deposizione delle armi, e degli influenti – anche nella sfera politica – cartelli dei narcos di Medellin e Bogotà, per arrivare, infine, all’odierno operato del 64° presidente del Venezuela, Nicolas Maduro Moros, fedele del predecessore Hugo Chavez e sostenitore del socialismo bolivariano. Sotto questa presidenza, la forte crisi economica e la scarsità persino dei generi di prima necessità hanno alimentato violente tensioni sociali e inoculato in Maduro la paranoia di essere bersaglio, da parte di servizi segreti stranieri, di un golpe, se non addirittura di un complotto volto alla sua eliminazione fisica. Anomala e stridente è la gravità della situazione generale – asseriamo maliziosamente, senza aggiungere altro – se si pensa che il Venezuela, al pari di altri Paesi dell’America Latina poveri e al tempo pieni zeppi di risorse naturali e materie prime, è ricco di petrolio. Qualcosa proprio non va.

E, mentre in Paraguay la gente assalta il Senato per contrastare i tentativi del presidente Cortés di garantirsi una rielezione attraverso una modifica alla Costituzione, a Caracas, in un clima esasperato da accuse al governo di mala gestio pubblica e corruzione dilagante, sono scoppiate infuocate proteste popolari. L’establishment venezuelano addebita platealmente i moti di piazza a occulte manovre destabilizzatrici, tese ad affondare l’esecutivo chavista democraticamente eletto. Gli scontri dell’altro giorno, fra torme di manifestanti inferociti e Guardia Nazionale, scaturiscono dall’esautorazione del Parlamento – controllato dagli oppositori al regime – da parte della Corte Suprema, atto che ha di fatto sancito l’insediamento di una dictadura, salvo poi la repentina retromarcia di Maduro, dichiaratosi – alla rete televisiva nazionale – all’oscuro dell’iniziativa. Tutta l’America Latina è percorsa dai venti di protesta della controrivoluzione, sostenuti da inflazione ai massimi livelli, economia stagnante, disoccupazione diffusa e caos sociale. Nemmeno il Brasile, Paese leader nel gruppo dei Brics, è immune da questo stato di cose: il suo Pil va sgonfiandosi come un palloncino e l’entourage presidenziale, succeduto agli scandali di corruzione che hanno coinvolto la precedente amministrazione, non gode di gran credito e simpatia presso la cittadinanza. La mancata ricostruzione del ceto borghese, annientato sotto i colpi della crisi economica e della globalizzazione, rende incolmabile il divario tra chi sta sotto e chi vuole stare sempre sopra. Sarebbe il caso di tornare a far crescere del tessuto connettivo tra ossa e muscoli, se non vogliamo  lo sfaldamento totale dell’intero organismo.

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