Onida: riforme, flessibilità, politica industriale

Laurea in Economia e Commercio alla Bocconi di Milano (1964), M.A. in Economics presso la University of Michigan, ora Professore Emerito, Fabrizio Onida è stato ordinario di Economia internazionale presso l’Università Bocconi dal 1983.  Presidente del CESPRI – Centro di Ricerca sui Processi di Innovazione e Internazionalizzazione, dal 1989 al 1995 è stato coordinatore del Corso di Laurea in Economia Politica. Ha insegnato in precedenza nelle Università di Milano e di Modena. E’ stato delegato italiano presso il consiglio Ocse per la politica della scienza e della tecnologia, presidente dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Milano e presidente dell’Ice (Istituto per il Commercio Estero). Lo abbiamo intervistato.

Proprio in questi giorni si è fatto un gran parlare della flessibilità concessa dalla Commissione UE all’Italia, ma questa è legata ad una sostanziale riduzione del rapporto deficit/pil il prossimo anno, più che una “regalia” non pare essere una cambiale in bianco che andrà a scadenza tra 12 mesi?

Il ragionamento dovrebbe partire dal perché è necessario reinterpretare il trattato di stabilità e crescita fatto in passato a livello di Eurozona e la funzione della BCE con gli altri organismi. Fondamentalmente credo sia ancora valido il vecchio ragionamento di Romano Prodi quando disse che il patto in sé è stupido, quindi la flessibilità non è anti-patto, si tratta di adeguare le regole che gli europei si sono dati in altri tempi, quando la situazione mondiale ed europea era diversa. Quindi va bene che ci siano questi ritorni di ragionevolezza, Schauble ha usato linguaggi diversi, è vero che continuamente l’Italia sarà sotto osservazione, per via del debito. Personalmente ritengo che la flessibilità concessa all’Italia in termini di risanamento della finanza pubblica, ci stia e non ho ben capito perché continuiamo a rimuovere l’ipotesi di incremento dell’iva e delle accise. Le imposte indirette in un momento di bassa inflazione, anzi quasi 0, sono uno strumento principe, in uno scenario di bassa crescita le entrate crescono molto lentamente e la spesa pubblica si riesce a frenare con molta difficoltà, l’aumento dell’iva dovrebbe essere uno strumento principe indolore, non si può ancora gravare sul reddito da lavoro che è già ampiamente penalizzato, lei aumenta il gettito con uno strumento che si spalma sull’intera popolazione. E’ chiaro che aumenta un pochino l’inflazione, ma se è -0,5 e la porta a 0 è un danno limitato.

Non pensa che un aumento dell’iva, al di là dell’aumento di pochi centesimi o euro dei prezzi, possa avere un impatto traumatico sulla propensione al consumo? A livello psicologico intendo.

Un conto è aumentare l’iva in presenza di una inflazione del 4-5%, un conto è quando è 0 o negativa, l’effetto sui consumi è molto diverso. Qui si dovrebbe aprire un’ampia discussione di macro-economia sulla propensione al consumo delle persone, ma è un fatto che l’Italia è sbilanciata ampiamente nella tasse dal lato del reddito sulle persone, sulle imprese, e poco sulle indirette e sulle rendite finanziarie. Noto invece che i governi, non solo quello Renzi, ma anche i precedenti, hanno sempre evitato di farlo, in realtà l’aumento dell’iva è stato deliberato, ma condizionato a tutta una serie di eventi (ndr: clausola di salvaguardia).  Io da economista direi che se effettivamente è necessario procurarsi delle entrate per ridurre il disavanzo come chiede l’Unione Europea, lo strumento dell’aumento dell’iva non è auto-lesionistico.

Lo scostamento ammesso dalla Commissione UE dovrebbe essere destinato e riforme strutturali, in realtà la stessa Commissione ha tempo fa mosso l’appunto che la flessibilità, che per ciclo economico doveva essere concessa solo una volta.

Le riforme strutturali sono in corso, per definizione non alterano il profilo congiunturale della finanza pubblica, ma rendono i loro effetti nel medio periodo, 3-4-5 anni, se per riforme strutturali intendiamo la burocrazia, le infrastrutture, la contrattazione, la scuola. Da economista, pur se di centro-sinistra, devo dire che il fatto che il sindacato sia così contrario alla contrattazione aziendale va contro la storia. Occorre mantenere la contrattazione collettiva perché quella è la difesa contro il continuo impoverimento del reddito, su questo non ho dubbi, ma la contrattazione aziendale dovrebbero non solo tollerarla, ma incoraggiarla, non parlo delle aziende da 20 addetti, ma da 50 in su, che sono poi quelle che producono il 70% del pil. Questo perché la contrattazione aziendale è in grado di venire incontro alla necessità di aumentare i salari,  cosa assolutamente necessaria perché i salari sono bassi e per questo i consumi sono bassi e siamo un paese sempre più impoverito da questo punto di vista. Il tutto subordinato ad aumenti di produttività calcolati con certi parametri, non legati al singolo lavoratore, ma a squadre o intera azienda anche.  Per fare questo ci vuole l’accoppiata tra produttività ed aumenti di salari, e voglio precisare che questo non intende ritmi lavorativi alla Charlie Chaplin spremendo il lavoratore come un limone aumentando le ore lavoro o il numero di pezzi prodotti, la produttività è se il mix di cose che l’aziende produce riesce ad avere successo sul mercato, perché a quel punto è la domanda di beni e servizi che genera reddito per l’azienda e quindi la possibilità di pagare salari migliori. Se ‘azienda riesce ad avere migliori performance grazie all’opera di dirigenti, capi, quadri, lavoratori, è giusto che anche a questi vada il beneficio dei maggiori introiti,che non siano solo bonus ai dirigenti quindi.

Lei dove ritiene dovrebbero essere concentrati gli sforzi e quali riforme metterebbe in atto?

Tra le cose di cui si parla troppo è come reinventare una politica industriale ‘corretta’, che non è solo di difesa con interventi nelle aziende in crisi, tipo i famosi tavoli del MISE, non sono solo le grandi scelte come la privatizzazione di grandi imprese pubbliche, tema trattato anche in un volume di prossima uscita come Astrid, un think tank di Roma dove sono con Bassanini, Giuliano Amato, Viesti, Andrea Bianchi (Direttore politica industriale in Confindustria), pubblicato per Passigli Editore. Come riforma strutturale io intenderei la riforma degli incentivi per come vengono intesi adesso, per cui ogni anno si prendono provvedimenti che spalmano piccoli incentivi su un’ampia platea di beneficiari, penso a crediti d’imposta, aiuti per ricerca e sviluppo, l’ammortamento accelerato, la Sabatini bis, sgravi contributivi e simili. Non che siano sbagliati, ma fatti così frammentati non producono effetti di aggregazione, il nostro sistema può diventare più forte se le piccole imprese si mettono assieme, si fondono, ci sono acquisizioni. Mancano soprattutto le linee di governo, una guida che si impegni a dare indicazioni su grandi progetti tecnologici dove il governo mette fondi per la ricerca e lo sviluppo, tipo la green economy e/o la mobilità sostenibile, tutti temi del filone smart cities ed eco cities dove lo Stato invece di distribuire aiuti a pioggia, mettendo a capo manager che non siano uomini del governo, e qui già immagino le difficoltà…. Il tutto dovrebbe essere sottoposto a verifiche su risultati e costi, come vede fare politica industriale oggi è molto diverso da come si faceva una volta.

L’Istat ha ridotto le previsioni di crescita del pil dall’ottimistico 1,6% del governo ad un più realistico 1,1%, questo comporterà nuovi tagli? L’aumento del pil del primo trimestre nell’Eurozona è stato dello 0,6% contro lo 0,3% del quarto trimestre 2015, ma l’indice Eurocoin che misura l’economia in tempo reale ha registrato una flessione ad aprile, come vede lo scenario attuale? In aggiunta il calo del 3% nella produzione industriale diffuso ieri.

I dati dicono che abbiamo avuto un aumento dei consumi dello 0,9% nel 2015 dopo uno 0,6% del 2014, il trend quindi è buono rispetto a 3-4 anni fa, i dati diffusi sono congiunturali, rapportati al periodo precedente. E’ fondamentale l’attesa da parte delle famiglie, se il clima non è buono, se c’è incertezza sul futuro, sulla tenuta del posto del lavoro, la cautela nelle spese diventa determinante. Comunque io non sarei pessimista, l’Istat ci dice che la variazione acquisita del 2016 è dello 0,6%, su questi dati congiunturali non mi soffermerei, quando escono questi dati mensili come questo del -3%, sono numeri molto volatili e soggetti a tante variabili che rendono volatile l’incremento mensile ed anche quello trimestrale.

Il macigno che pesa addosso all’Italia è la montagna del debito pubblico, pur vantando un avanzo primario nella stragrande maggioranza degli ultimi 15 anni, il bilancio del nostro paese è gravato degli interessi che gravano su questo debito, eppure i vari governi hanno rimandato il calo dello stesso di anno in anno, a memoria credo che l’ultima diminuzione risalga al governo Prodi, qual è il suo parere su questo fattore? Oltretutto la deflazione insistente aggrava le posizioni debitorie e non pare finire.

Vero, ma segnaliamo intanto che oggi gli interessi sul pil pesano per il 4,5%, erano il 5,5% due anni fa, i tassi sono scesi ed il Tesoro ha continuato ad emettere titoli a tassi molto inferiori, quindi è chiaro un debito del 130% del pil pesa, la Germania pagherà di interessi il 2,5-3%, noi il 4,5%, ma il problema è lo stock del debito? Su questo io da economista sarei molto favorevole ad interventi drastici, privatizzazione ne abbiamo già fatte tante, oramai privatizziamo pezzi di aziende. Abbiamo attuato l’escamotage della Cassa Depositi e Prestiti, privatizzando un debito pubblico, perché la CDP è un soggetto privato, non c’è solo lo Stato, ma anche le Fondazioni. Le privatizzazioni possono ancora fare qualcosa, ma non più di tanto, ci sarebbero gli interventi che un governo dovrebbe prendere, ma impopolari come la tassazione delle rendite finanziarie e dei patrimoni. Il paese è fortemente diseguale, la distribuzione del reddito si è andata aggravando negli ultimi anni, l’indice è peggiorato rispetto agli altri paesi, e resta il fatto che noi tassiamo molto il lavoro e poco il capitale. Le rendite finanziarie ed i patrimoni sono un esempio cui guardare con meno prevenzioni ideologiche, chiaramente ci saranno sempre le resistenze degli intermediari finanziari, delle banche, ma soprattutto dei cosiddetti poteri forti.

Il QE della BCE con la massiccia iniezione di liquidità ha comunque fatto sì che il pil Eurozona sia aumentato più di quello dei paesi no-Euro, il che dovrebbe far riflettere sui rischi di una fuoriuscita dal sistema Europa i populisti, ritiene che una eventuale brexit sarebbe un problema grave per l’Europa? Da che punto di vista?

Non credo arriveremo ad una Brexit, la City ed il Corporate sono molto preoccupati su questo, si immagina cosa potrebbe voler dire per il Regno Unito ricontrattare il WTO? Se escono dalla UE non fanno più parte del WTO.

La pur promettente crescita dell’Italia, che sia l’1,1% o l’1,6%, è comunque inferiore alle percentuali di paesi come Portogallo, Spagna e perfino Francia, il che allarga la forbice, in Germania si è puntato sulla qualità, con il risultato che pur avendo più alto costo del lavoro dell’Eurozona risulta anche il maggior esportatore, non abbiamo avuto la capacità di gestire e capire questo meccanismo cercando solo di limitare i danni?

Non è che l’Italia non sia attenta alla qualità, sono stato ad una fiera a Parma sull’automazione dove erano presenti Siemens, Intel, mancava ad esempio UCIMA ed altri, noi siamo piccoli, soffriamo di nanismo, più che fornitori siamo sub-fornitori. Abbiamo le tecnologie, la qualità, ma abbiamo imprese piccole, siamo al livello Industry 4.0, si parla di cloud, di interconnessioni, noi ci siamo, ma mancano soggetti medio-grandi che si affianchino a partner europei ed americani che si affianchino nell’affacciarsi sui mercati mondiali.

©Futuro Europa®

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