Un’estate calda

Torno a scrivere dopo un mese di pausa, durante la quale sono successe cose da estate calda.  Ciascuna meriterebbe un’analisi non superficiale. Limitiamoci ora ad alcune, pur riconoscendo che molte altre, soprattutto sul fronte del terrorismo e delle criminali attività dell’IS, richiederanno commenti appropriati.

Cominciamo con il tormentone greco. Il suo andamento è stato tanto contorto da parere arcano.  All’inizio, la posizione di Tsipras sembrava non solo irrealistica ma anche incomprensibile. Cosa voleva davvero? Quando si ha una situazione economico-finanziaria così disastrosa, le strade possibili sono due: o si negozia accettando le esigenze dei creditori in cambio degli indispensabili aiuti, o si getta la spugna e si dichiara il default, affrontandone tutte le tremende conseguenze che, per un paese dell’eurozona, comprendono anche la forzata uscita dall’euro e la fine dell’accesso ai prestiti della BCE e del FMI. Tsipras non ha mai detto di volere questa soluzione (oggi la sostiene, in ritardo, il suo ex Ministro dell’Economia Varoufakis) ma nella campagna elettorale aveva illuso la gente con promesse populiste che gli hanno dato la vittoria ma erano visibilmente insostenibili. Subito dopo è parso convinto di poter farsi forte del risultato elettorale per ammorbidire le esigenze dei creditori e in primo luogo della Germania. Non conosceva come vanno le cose nel mondo, quando non si tratta di questioni di cuore ma di portafoglio. Allora ha fatto una cosa completamente incomprensibile e alla fine inutile: un referendum, il cui risultato logico poteva essere solo, in caso di vittoria del no, quello di voltare le spalle all’Europa (gettandosi, magari, nella braccia in realtà assai poco accoglienti di Putin? Altra illusione!).

Chiariamolo subito: all’antica e magnifica civiltà della Grecia tutti dobbiamo moltissimo, ma nel presente stiamo di fronte a un paese economicamente trascurabile, che pesa non più del 2% nell’economia dell’eurozona. Se ne uscisse, sarebbe certo triste ma non sposterebbe di molto la forza dell’Europa e della sua moneta. L’Europa avrebbe avuto a quel punto tutto il diritto di lavarsene le mani e abbandonare i greci al loro destino. Malgrado le assurdità di Schäuble, alla fine ha prevalso la ragione, alimentata forse dalla giusta preoccupazione di non creare un precedente invocabile da tutti quelli che in vari Paesi dell’Unione sognano la rottura. L’accordo raggiunto in extremis a Bruxelles è dunque una buona cosa. Temo però che non segni l’ultimo atto della ormai lunga tragedia greca. Tsipras dovrà ora affrontare una situazione interna assai complessa e magari nuove elezioni e la Cancelliera Merkel dovrà vedersela con quella parte del suo partito che è stanca (come darle torto?) di dare soldi ai greci. Bisognerà inoltre vedere se e in che misura la Grecia realizzerà le riforme richieste e se queste funzioneranno. Insomma, nel migliore dei casi, siamo solo all’inizio di un faticoso e incerto cammino, al cui termine tutto è ancora possibile.

Un commento di natura domestica è però intanto possibile: il nostro Governo ha tenuto una posizione ragionevole, sulla scia di quella francese e magari ha avuto anche qualche peso (meno di quello che Renzi mostra di credere). C’è invece molta gente che ha fatto una pessima figura: l’ha fatta l’ineffabile Vendola, che con giovanile entusiasmo si è precipitato ad Atene a sostenere i compagni greci fautori del No (non credo che abbia spostato un solo voto, ma la stupidaggine resta la stessa). L’hanno fatto gli eurofobi alla Salvini, che avevano puntato sull’uscita greca e ora, delusissimi, accusano Tsipras di tradimento (!). Di Grillo non parliamone neppure: è una brutta figura permanente. Nell’insieme, che gentarella! A proposito di gentarella, che voglia di commentare l’illustre Fassina che crea un nuovo partito (un altro! Ma a sinistra non c’è già il SEL?). Il piano sembra sia di riunire tutti gli scontenti, gli sconfitti, gli emarginati, i mugugnoni del PD. Che tristezza!

Chiudo questa nota con una constatazione, se i lettori me lo permettono, abbastanza autosoddisfatta. Tempo fa, scrivendo sulla vicenda dei due Marò detenuti in India avevo sommessamente ricordato alcune cose: la prima è che non sono persone esenti da colpe; la seconda è che ogni azione di malafede e di forza (impossibile) da parte nostra, sarebbe stata una sciocchezza; la terza è che l’India, coi suoi difetti, è una democrazia con una tradizione giuridica di stampo britannico sulla quale non è del tutto folle fare affidamento. E concludevo difendendo nell’insieme l’operato dei nostri governi, da Monti a Letta e ora a Renzi, invitando, se non alla fiducia, almeno alla pazienza.

Queste poche considerazioni mi valsero a suo tempo un po’ di insulti. Non importa. Oggi mi pare che la situazione si stia chiarendo. Uno dei due Marò è in Italia e ci resterà, con l’assenso della Corte Suprema indiana. Il Governo italiano ha scelto la via dell’arbitrato internazionale (magari poteva farlo prima) e la stessa Corte Suprema l’ha accettata. Manca ancora una decisione del Governo indiano, ma la questione è ormai nella carreggiata – politica, morale e legale – giusta.

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