Peshawar, Cuba, Mosca

Lo choc della presa di ostaggi di Sidney è stato subito superato dall’inconcepibile orrore della strage di bambini a Peshawar ad opera dei talebani. Più di 120 innocenti trucidati, colpevoli solo di essere, una parte di essi, figli di militari pakistani , gente umile che compie il proprio dovere difendendo il loro paese. Allo stesso tempo, la ferocia islamica si manifestava ancora nella torturata Nigeria. E tutto questo in nome di un Dio vendicatore e terribile. Ma a Peshawar neppure la scusa della guerra santa, per inaccettabile che sia, può valere. Le vittime e le loro famiglie sono tutti musulmani, tutti appartengono a quella grande comunità a cui i mostri talebani dicono di riferirsi, come musulmane – sciiti ma anche soldati siriani sunniti – sono le vittime trucidate a centinaia e migliaia, accanto a cristiani e altri, in Siria e in Irak dalla furia sanguinaria della Jihad.

Che diranno i piagnoni delle reti sociali, sempre pronti a demonizzare l’Occidente? Che diranno tutti quelli che criticano chi si oppone alla barbarie nel solo modo possibile, con la forza delle armi, e invoca comprensione per le ragioni dei mostri e persegue un impossibile dialogo? Quanto tempo ci vorrà perché ci si renda conto che siamo in una guerra: non tra religioni, ma tra tolleranza e ferocia, tra civiltà e barbarie e che dall’esito di questa guerra dipende il futuro di tutti noi, del nostro modo di vivere, dei nostri figli? Quanto tempo servirà ad accettare che contro i mostri si combatte con le armi, non con una mollezza inerme e suicida? Lo comprenderà anche il Papa? Che dirà di questa ennesima strage? E che diranno le anime belle che, da noi e ad Oriente, continuano a dirci che l’Islam è, nelle sue basi, una religione tollerante e di pace? Se così è (si può discuterne all’infinito), condannino senza mezzi termini la ferocia estremista e isolino completamente i suoi autori. Altrimenti la loro credibilità sarà vicina a zero.

Per rendere graficamente evidente l’abisso che separa il modo di essere occidentale dal fanatismo islamico, è venuta la notizia che gli Stati Uniti hanno deciso di normalizzare le relazioni con Cuba, superando un conflitto che dura da almeno mezzo secolo. Da parte del Presidente Obama si tratta di una decisione generosa, tanto più che comporta alto rischio politico. È scontata l’opposizione della destra americana e di una parte della comunità di esiliati cubani. Ma è uno sviluppo positivo e viene al momento giusto. Dall’uscita di scena di Fidel Castro, il regime cubano ha dato segni di cambiamento, timidi ancora ma significativi e probabilmente irreversibili. Lo stato dell’economia dell’Isola è tale da non consentire altra speranza che in una graduale liberalizzazione, a cominciare dal piccolo commercio, che ridia fiato all’iniziativa privata. È probabile che la necessità, più che un chiaro disegno politico, spinga Raul Castro ad andare avanti. Tra l’altro, Cuba necessita la fine del blocco commerciale imposto dagli Stati Uniti per ridare un po’ di fiato ai suoi scambi con l’estero. Va aggiunto che Cuba ha perso ogni appoggio esterno che la puntelli. Da tempo la Russia non l’aiuta più, ma da qualche mese anche Venezuela, finora suo patrona, ha smesso di poterle dispensare aiuti a fondo perduto, colpita com’è anch’essa dalla crisi economica interna e dalla caduta del prezzo del petrolio. Da parte loro, gli Stati Uniti cominciano a rendersi conto che il blocco e l’isolamento sono serviti solo a impoverire il popolo cubano, non a scalfire il ferreo controllo del regime, e ha anzi offerto facili argomenti di propaganda ai castristi, atteggiatisi a difensori della libertà e dell’indipendenza della Patria (un argomento che in America Latina è sempre di sicuro effetto).  Non credo invece che sia vicina la fine del regime di controllo poliziesco e di oppressione della libertà. Ma un  graduale riavvicinamento con l’Occidente può contribuire, perlomeno, ad attenuarne i rigori, in vista dello sblocco che credo a lungo andare inevitabile.

Nel complesso, dunque, una notizia positiva, ed è da elogiare l’opera discreta ed efficace svolta dalla diplomazia vaticana e personalmente da Papa Francesco: un papa latinoamericano che sente ovviamente il vantaggio di riportare poco a poco Cuba nel seno del gregge.

Da ultimo, Mosca. La Russia di Putin sente ora crudelmente gli effetti del conflitto con Stati Uniti ed Europa per l’Ucraina. L’effetto combinato delle sanzioni e della caduta del prezzo del petrolio (indotto dalla superproduzione americana e dal calo della domanda cinese) ha messo in seria difficoltà il Rublo e rischia di mettere in ginocchio l’intera economia russa. Lo zar di Mosca ha un bel accusare l’Occidente delle sue disgrazie: ha ragione, ma così riconosce che le fiere dichiarazioni di autosufficienza erano quanto meno esagerate. Nessun può seriamente augurarsi un crollo dell’economia russa, ma è almeno da sperare che Putin comprenda che ha tutto da guadagnare adottando un comportamento ragionevole e conforme agli standard di quella civiltà alla quale la Russia deve e può  appartenere. E questo contribuisca ad avvicinare una ragionevole  soluzione di un conflitto che mette a disagio l’intera Europa.

©Futuro Europa®

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