Sindacati, letargo o coma?

Da ormai troppo tempo vi è in Italia un nodo intricato che qualsiasi Governo, di destra e di sinistra, non è  mai riuscito a sciogliere: il mercato del lavoro.

Il nostro Paese è oggi uno degli Stati con indici di produttività, efficientamento e competitività più bassi d’Europa, con vincoli normativi oramai vetusti ed inefficaci. Il grosso dell’impalcatura legislativa che regola il mondo del lavoro, non solo nei rapporti tra datori e prestatori di lavoro, ma anche soprattutto nelle relazioni sindacali, ha abbondantemente superato i trent’anni (quaranta se si pensa allo Statuto dei lavoratori).

Dietro a questo immobilismo, con responsabilità della politica, ci sono soprattutto i sindacati. Le associazioni dei lavoratori oggi stanno attraversando una crisi nel nostro Paese non indifferente. Gli anni di rigidismo, la ritrosia all’innovazione di un mondo che cambia con una velocità impressionante, li hanno resi co-responsabili delle condizioni in cui oggi si trova l’Italia. Questa crisi in effetti è coincisa con l’inasprimento della crisi economica. Non sono così lontani i tempi in cui la CGIL (primo decennio del 2000) riempiva le piazze contestando i governi di centrodestra, invocando l’inviolabilità dei diritti dei lavoratori.

Purtroppo (o per fortuna) oggi le cose sono diverse. La difesa spasmodica di diritti trasformati in privilegi non è più sostenibile e a dirlo non sono certo i governi italiani, ma il mercato globale, che ha di fatto escluso dalla competizione la nostra penisola.

Se dovessimo analizzare nel dettaglio cosa in questi sessant’anni è mancato al sindacalismo italiano, potremmo scriverci un trattato, ma oggi servono risposte concrete ed immediate, non adatte alla mera discussione accademica. È necessario europeizzare il concetto che abbiamo del lavoro, farlo più simile a quei Paesi che abbiano maggiori affinità con il sistema socio economico italiano (inutile prendere ad esempio i paesi del nord Europa, forgiati da storia e contesti sociali assolutamente diversi dai nostri) come per esempio Germania ed Inghilterra. Già, perché la nostra industria, la nostra manifattura e anche il nostro terziario hanno tutte le capacità e le qualità per competere con questi Paesi che però hanno compiuto le loro rivoluzioni oramai trent’anni fa.

Oggi, Germania ed Inghilterra hanno abbandonato il sindacalismo di opposizione per il più costruttivo sindacalismo integrato. Hanno capito che per rendere competitive le proprie aziende avrebbero dovuto abbandonare l’idea marxista dell’operaio alienato sfruttato dal padrone, per un più moderno concetto di Datore/prestatore di lavoro. Così hanno decentralizzato la contrattazione, spostandola fino all’azienda; hanno trasformato il concetto di precario in flessibile e hanno iniziato a far sentire gli impiegati parte dell’azienda.

In Italia invece parliamo di padroni e di operai sfruttati; parliamo di precari e mai di flessibilità; parliamo di lavoro solo come diritto e mai come di dovere; uniformiamo il lavoro su un territorio che uniforme non è e crediamo ancora che il profitto sia una aberrante invenzione del capitalismo.

A suffragio della prepotente crisi, la settimana scorsa persino la sinistra si è spaccata in due: metà a Roma al corteo della CGIL e metà alla Leopolda con Renzi. Forse qualcuno finalmente si sta rendendo conto che se nel 2014 la sindacalizzazione è in continua discesa, soprattutto tra i giovani, tra i nuovi lavoratori e in tutte quelle imprese ormai lontane dal concetto di fabbrica novecentesco, un motivo ci sarà.

Se trent’anni fa Germania e Inghilterra hanno capito che la morte dei sindacati avrebbe solo peggiorato la situazione, non si capisce perché in Italia siano loro stessi a volersi suicidare senza comprendere verso dove corre il mondo. Speriamo sia solo un lungo letargo.

©Futuro Europa®

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