Europa, meglio in coro che da solisti

Unione Europea sì o no? Dentro o fuori? Meglio la lira o l’euro? Questo è il dibattito, a volte condito da toni folcloristici attorno cui ruotano queste elezioni europee. Alla nascita dell’euro, Paul De Grauwe paragonava la UE ad un edificio privo di tetto, finché il tempo è bello tutto va bene, ma se comincia a piovere ci si bagna.

La crisi economica, è diventata sociale e politica, ormai non c’è paese in Europa che di questi tempi non sia afflitto da sentimenti euroscettici o più semplicemente nazionalisti. La distonia tra una moneta unica e 17 bilanci nazionali ha fatto sì che gli investitori scappassero dai paesi ad alto debito. Ai problemi generati all’interruzione dei flussi finanziari esteri la UE ha risposto, non come si sarebbe dovuto, con la creazione di reti di sicurezza, ma ricorrendo a politiche di austerity che più che risolvere i problemi, sono servite a mitigare i timori della Germania. I due anni passati a farsi guidare dalle paure finanziarie degli investitori, fino alla dichiarazione settembrina di Mario Draghi, hanno fatto sì che la crisi diventasse strutturale e che il credit crunch assalisse le imprese. L’austerity fiscale ha generato effetti depressivi che si sono risolti nell’euroscetticismo, politiche che hanno rivelato la loro fragilità nei paesi con rapporto debito/Pil superiore al 100%, in cui tali manovre aggravano il debito poiché il Pil diminuisce più del debito. Non si è tenuto conto che un’inflazione inferiore al 1%, che nei desiderata della BCE dovrebbe attestarsi a quota 2%, avrebbe reso eccessivamente difficoltoso il risanamento.

E’ ipotizzabile l’uscita dall’euro ed il ritorno alla svalutazione della lira come propugnato da alcuni partiti alla ricerca di facili consensi, in primis la Lega Nord? Consideriamo che la svalutazione genera facili entusiasmi, dona nuova linfa di competitività alle imprese introducendo la sensazione di una via facile che non necessità di comportamenti virtuosi, una soluzione che se non seguita da una ristrutturazione dell’architettura economica generale, non restituisce competitività al paese. In un paese povero di materie prime come il nostro poi, bisogna porre il punto sul maggior costo d’acquisto delle stesse, in primis il mercato energetico da cui siamo totalmente dipendenti. E i crediti vantati dalle imprese in valuta estera? Se è auspicabile una inflazione controllata al 2%, non pare che unire una svalutazione del 20% ad un tasso inflattivo di pari grandezza, come sperimentato negli anni spensierati dei Bot-People, sia la soluzione di tutti i mali.

Come ha ricordato in una nostra intervista con un approfondito ed ineccepibile esame della situazione attuale, Sergio De Nardis, chief-economist di Nomisma, una situazione del genere si verificò negli anni ’30 quando i Paesi che grosso modo compongono l’attuale Eurozona – più Gran Bretagna ed altri di minore importanza – erano riuniti in un sistema valutario denominato Gold Standard. Questo accordo annotava varie similitudini con gli attuali vincoli di bilancio vigenti nella Eurozona; e se è vero che quando, a seguito della crisi, l’accordo si disgregò, i paesi che prima ne uscirono furono quelli ne trassero i maggiori benefici. L’uscita dall’euro oggi porterebbe quindi gli stessi effetti salvifici di allora? Gli effetti sarebbero invece di una disintegrazione politica che metterebbe fine ad ogni progetto di integrazione europea. La reintroduzione di una moneta come la Lira, che non esiste più da anni, comporterebbe problemi tecnici di non facile soluzione e la necessaria “ri-statalizzazione” della Banca d’Italia ci metterebbe automaticamente fuori da ogni contesto comunitario.

I partiti europeisti hanno pagato l’incapacità dell’Unione di trovare soluzioni adeguate ai disagi dei cittadini, l’impressione di una governance europea anti-democratica ed ignifuga alle richieste dei paesi membri ha fatto deflagrare un diffuso euroscetticismo. L’errore strategico, compiuto in un momento di “bel tempo”, di prevedere che l’unione monetaria avrebbe fatto da traino a quella politica e fiscale, allo scoppio della crisi ha mostrato tutta la sua fragilità. L’Unione come è ora si è mostrata addirittura deleteria quando si è trattato di dover rispondere all’emergenza della crisi. Il ruolo dei partiti nel processo di decision-making europeo è stato ininfluente e la previsione di una crescita, nella quasi totalità dei paesi, limitata a circa 1% non pare il toccasana per un’inversione di tendenza che si scontra con promesse elettorali interne in palese contrasto con gli impegni europei.

La situazione non appare ancora al punto di non ritorno, nell’era della comunicazione globale le differenze vengono immediatamente amplificate, il sentire comune che si parli di Europa solo quando si chiedono sacrifici e non nel caso di assimilare stipendi e benefici alimenta la tensione nei confronti delle politiche comunitarie. La soluzione passa attraverso una stretta armonizzazione delle politiche fiscali ed una “reale” integrazione politica. Riaggregarsi per tornare ai valori fondamentali dei padri fondatori contro i costi insostenibili che avrebbe una uscita dall’euro sostiene il candidato del PPI alle Europee, Domenico Rossi, Sottosegretario alla Difesa. “La libertà e la pace non sono gratis, sono sempre conseguiti” ha detto il Presidente dei Popolari per l’Italia Mario Mauro ricordando il paradosso ucraino dove “c’è gente che si fa ammazzare per entrare in Europa, mentre noi discutiamo di uscirne”. Difficile dargli torto, come quando ricorda che con l’ascesa del Bric entro pochi anni, i big europei – Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia – usciranno dal novero delle prime potenze economiche mondiali.

Se non assieme, in un Europa coesa politicamente e fiscalmente, dove alla cessione di una piccola parte di sovranità nazionale alla UE corrisponda un tangibile miglioramento dello standard del livello di benessere, è forse  ipotizzabile che un singolo Paese possa affrontare, con le sole proprie forze, la sfida di un mercato globale?

©Futuro Europa®

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