Turchia, contestato il referendum del Presidente

A dispetto del suo tradizionale messaggio di pace, la colomba pasquale ha portato – sul piano internazionale – una escalation allarmante di eventi, effetto dei pericolosi prodromi verificatisi nelle settimane precedenti.

Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un annuncia una serie di test nucleari, ignorando le intimazioni di mezzo mondo, le forze militari di Cina e Giappone si schierano in preventivo assetto difensivo, Trump ordina alla U.S. Navy di avvicinarsi alla Corea del Nord per intimidirne il regime, mentre la flotta naviga – da una settimana – nella direzione opposta, evidenziando ipotetiche falle nella catena di comando o deliberati ammutinamenti all’autorità presidenziale e al suo nuovo corso interventista, inaugurato col lancio della “madre” di tutte le bombe su una base aerea siriana. Questi, in sintesi, gli avvenimenti più rilevanti delle ultime ore.

Mentre si procede alle prove tecniche per un teorico conflitto nucleare mondiale, continua a far parlare di sé il presidente turco Erdogan. L’occasione è il referendum costituzionale del 16 aprile scorso, vinto di misura dal fronte favorevole al Sì, con un 51,3%, risultato inferiore alle aspettative della vigilia di almeno 5 punti percentuali. L’esito della consultazione traghetta il Paese dal vigente sistema parlamentare a un modello presidenziale in “salsa” turca, con un forte accentramento dei poteri politici e militari nella figura del Capo dello Stato.

Sono insorti da subito gli oppositori di Erdogan. Il CHP (Partito repubblicano del popolo) ha contestato la regolarità di circa un milione e mezzo di schede, accettate come valide – a ridosso della chiusura dei seggi – pur non essendo le relative buste dotate di timbro ufficiale. Il Consiglio elettorale supremo avrebbe ammesso l’accoglimento di una richiesta in tal senso da parte dell’AKP, il partito di governo, citando due precedenti nel 1994 e nel 2004, senza però tener conto delle disposizioni contrarie in merito, contenute nella legge elettorale del 2010. Di qui, le grida allo scandalo. Sulla distribuzione dei voti, appare netta la spaccatura tra contesto urbano e rurale. Le grandi città hanno votato No, le campagne si sono espresse per il Sì. La manifestazione di volontà diametralmente opposte tra queste due realtà territoriali è, ormai, un trend statistico generale e consolidato anche altrove. Le profonde differenze esperienziali e di mentalità, tra chi vive in vasti centri urbani e chi in provincia, alimentano inevitabilmente lo sviluppo di una diversa coscienza sociale. Quadro, peraltro, che abbiamo fedelmente ritrovato anche nell’espressione del voto popolare in occasione del Brexit.

Senza considerare il superiore volume di fuoco mediatico e propagandistico dei sostenitori del Sì, il fronte del No è stato penalizzato anche dai molteplici arresti di dirigenti ed esponenti del partito filo-curdo, da sempre nel mirino di Erdogan: numerosi, infatti, sarebbero i casi di ostracismo ai seggi nei confronti di suoi membri. Migliaia di cittadini sono scesi in piazza per protestare contro i brogli e si temono nuove tensioni e azioni repressive della polizia, in attesa dell’imminente formalizzazione ufficiale degli esiti della consultazione.

Trump ha telefonato all’omologo turco all’indomani della vittoria referendaria. Washington non contesta il risultato e auspica – non trascurando le preoccupazioni avanzate dagli osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa) sul rafforzamento dei poteri nelle mani di Erdogan – il rispetto del governo turco verso l’opposizione e la libertà d’espressione.

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