
La nascita di una leggenda, i Queen
“Non c’è dubbio che questo energico, quartetto funky inglese abbia tutti gli strumenti necessari per rivendicare l’abdicato trono heavy-metal degli Zep, oltre che per diventare una forza veramente influente nel mondo del rock. Il loro album di debutto è eccellente”. Così scriveva Rolling Stone. Una frase che oggi sembra scolpita nel marmo del destino, ma che allora, in quel luglio del 1973, era solo una scommessa, un presentimento, un’intuizione fortunata.
Quel giorno, il 13 luglio 1973, usciva Queen, l’album d’esordio di un gruppo inglese che da lì in avanti non avrebbe mai più cambiato formazione: Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor, John Deacon. Quattro nomi, quattro anime diverse, che insieme seppero creare un linguaggio musicale tutto loro. E che, a differenza di molti, rimasero fedeli alla loro formazione fin dagli albori, senza mai cambiare né fronte né sostanza.
La concorrenza era feroce. C’erano i Led Zeppelin che facevano tremare gli stadi, i Deep Purple che incendiano i palchi, i Pink Floyd già intenti a costruire muri sonori, i Genesis che esploravano mondi surreali, i Black Sabbath che inventavano l’oscurità e i The Who che gridavano all’aria aperta. E David Bowie, con la sua andatura da alieno colto. In mezzo a questo scenario, spuntavano i Queen.
Non c’era nessuna hit da classifica, nessun brano che ancora oggi si canta ai matrimoni, negli stadi o nei karaoke. Niente We Will Rock You. Niente We Are the Champions, nessuna Bohemian Rhapsody. Ma c’era già tutto.
C’era la voce di Freddie, che non cantava: aggrediva, accarezzava, raccontava. C’era la chitarra di May, costruita in casa con suo padre, che sembrava venire da un altro pianeta, capace di colpire come un martello e poi subito dopo suonare come un’eco. C’erano le batterie precise e spavalde di Taylor, e il basso silenzioso ma decisivo di Deacon, il più taciturno del gruppo, ma quello che spesso firmava i brani più sorprendenti.
L’istrionismo, i mantelli, i baffi e le calzamaglie sarebbero arrivati dopo. Prima venivano le parole. Prima ancora, la musica. Perché era di questo che si trattava: fare musica, costruire canzoni. Non video, non pose, non selfie. Quando nasceva un brano, non c’era l’ossessione di pensare a come sarebbe apparso su YouTube o su TikTok. C’era piuttosto il suono, il riff, la dinamica. L’immagine contava, certo. Ma veniva dopo, come il profumo dopo il fiore. Era un contorno, non il piatto. Un vestito, non il corpo.
Anche le copertine parlavano un linguaggio diverso da quello odierno. Non si vedevano sorrisi forzati, foto ammiccanti o filtri digitali. Queen, l’album, aveva una copertina scura, grafica, potente. Niente facce, solo atmosfera. Perché l’identità non era ancora il volto, ma il suono. E il mistero era parte della forza. Oggi, al contrario, l’immagine precede tutto. Senza immagine non si fa nulla. È diventata la condizione necessaria, e spesso l’unica. Allora era solo una conseguenza.
L’album, composto in gran parte da brani scritti anni prima, mescolava hard rock puro (Liar), progressivo visionario (My Fairy King), ballate morbide e malinconiche (The Night Comes Down), suggestioni glam e riferimenti fantasy. Tolkien, per capirci, non era ancora una moda: era un mondo, e Freddie ci si tuffava con lo stesso entusiasmo con cui avrebbe poi inventato scenari teatrali da stadio.
Non era più la Londra degli anni Sessanta, quella dei Beatles e delle rivoluzioni color pastello. La Swinging London aveva perso il suo sorriso, ma i Queen, nel pieno degli anni Settanta, ne raccoglievano l’eco più ambiziosa. Non la continuarono: la ampliarono, la teatralizzarono, le misero addosso un mantello e le diedero un microfono d’oro.
Non sappiamo se, quel 13 luglio, il pubblico si rese conto davvero di cosa stesse succedendo. Forse no. Le rivoluzioni, spesso, non si annunciano. Non passano per la porta principale, entrano di lato, quasi in silenzio. Ma oggi lo possiamo dire senza esitazione: quel giorno nacque una leggenda.
Nessuna hit, nessun clamore, ma qualcosa di potente cominciò a muoversi. E mentre i riflettori guardavano altrove, i Queen accendevano il motore di una macchina destinata a non fermarsi più. In un’epoca in cui si parlava con le note e non con i filtri, in cui ci si imponeva con la sostanza e non con la confezione. E forse, anche per questo, funzionava.
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