Cinquant’anni fa la strage di Fiumicino

Forse se ne parla poco perché non può essere strumentalizzata da qualche partito o fazione italiana, ma oggi ricorrono i cinquant’anni dalla strage di Fiumicino. Non si erano ancora spenti gli echi della strage alle Olimpiadi di Monaco dell’anno prima che il terrorismo palestinese colpì in Europa e, più esattamente a Roma.

Il 17 dicembre 1973, intorno alle 12:51, mentre il volo PanAm 110 si preparava a partire per Beirut e poi giungere a Teheran, cinque palestinesi si fecero strada attraverso l’edificio del terminal, armati di armi da fuoco automatiche e granate. I terroristi estrassero i mitragliatori dai bagagli a mano e iniziarono a sparare in tutto il terminal, mandando in frantumi i finestrini e uccidendo due persone. I piloti e l’equipaggio nella cabina di pilotaggio dell’aereo poterono vedere i viaggiatori e i dipendenti dell’aeroporto che correvano ai ripari.

Gli uomini armati corsero sull’asfalto verso il jet Pan American, lanciando bombe incendiarie al fosforo e bombe a mano attraverso le porte anteriori e posteriori aperte dell’aereo. La cabina riempì di fumo ed anche se hostess riuscirono ad aprire l’uscita di emergenza e l’equipaggio tentò di evacuare i passeggeri, ventinove di loro e il commissario di bordo Diana Perez morirono sull’aereo, compresi tutti gli undici passeggeri della prima classe.

Dopo aver distrutto l’aereo della PanAm, i terroristi presero in ostaggio alcuni italiani e membri dell’equipaggio di terra della Lufthansa sul volo Lufthansa che era sulla pista in attesa di partire per Monaco. L’agente di polizia Antonio Zara di 20 anni, venne ucciso sul luogo dell’aggressione, dopo che era stato lanciato l’allarme dalla torre di controllo.

I dirottatori obbligarono l’equipaggio a decollare. Nella prima parte del rullaggio l’aereo è stato inseguito da mezzi dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, che hanno abbandonato l’inseguimento dopo che i dirottatori avevano minacciato di uccidere tutti gli ostaggi a bordo. Alle 13:32, poco più di mezz’ora dall’inizio dell’azione, l’aereo decollò per Atene dove atterrò alle 16:50, ora locale.

Qui i terroristi chiesero di liberare due palestinesi detenuti accusati di essere gli autori dell’attentato all’aeroporto di Atene del 5 agosto 1973. Durante le trattative i dirottatori uccisero un ostaggio italiano, l’addetto al trasporto bagagli Domenico Ippoliti, il cui corpo fu abbandonato sulla pista. Non si giunse ad un accordo solo perché i due detenuti rifiutarono di unirsi al commando e i dirottatori ripartirono per Beirut dove le autorità libanesi negarono l’autorizzazione per l’atterraggio così come Cipro. Dopo uno scalo a Damasco, dove furono riforniti di viveri e carburante, l’aereo giunse a Kuwait City dove, il giorno dopo, furono liberati gli ostaggi.

L’attacco si è rivelato così fulmineo da non consentire un’adeguata risposta da parte delle forze di polizia dell’aeroporto. In quel periodo erano infatti in servizio in aeroporto solo 117 agenti: 9 carabinieri, 46 doganieri e 62 agenti della Polizia di Stato, di cui solo 8 impiegati nel servizio antisabotaggio; una cifra irrisoria per uno scalo intercontinentale come Fiumicino. Il tutto era aggravato dal fatto che la struttura aeroportuale non era assolutamente idonea alla prevenzione di attentati terroristici, in quanto concepita in un momento in cui tali eventi non erano prevedibili.

I responsabili dell’attacco sono rimasti impuniti. Trentaquattro vittime senza giustizia. Le autorità del Kuwait, dopo aver interrogati terroristi, erano intenzionate a consegnarli all’OLP, ma si scatenò un aspro dibattito sia sulla sorte che avrebbero dovuto fare i terroristi sia su quale Nazione avrebbe dovuto processarli.

L’Italia avanzò una formale ma blanda richiesta di estradizione ma non esisteva un trattato che ne regolasse le forme con il Kuwait. Inoltre, era forte il timore che una detenzione in Italia avrebbe potuto fornire il pretesto per altri attentati o attacchi per liberare anche altri palestinesi detenuti per un fallito precedente attacco ad Ostia.

I cinque uomini, di cui non vi è certezza alcuna sull’identità, vennero processati in Egitto l’anno dopo per una non ben definita “operazione non autorizzata.” Dopo alcuni mesi di detenzione vennero liberati in Tunisia e di loro non si hanno più notizie.

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