L’attacco all’Iran

Un attacco cibernetico al sito nucleare iraniano di Natanz ha sconvolto la rete elettrica e causato, secondo l’intelligence americana, un ritardo di nove mesi nel programma nucleare del Paese.

Non è difficile attribuirlo a Israele, da sempre (e con buoni motivi) fortemente ostile al programma di Teheran di acquistare mezzi di distruzione nucleare, che sarebbero poi rivolti a colpire, o almeno minacciare, Israele stesso. Non sono imprese nuove per il governo israeliano: ricordiamoci che, distruggendo il reattore di Osirak,  negli anni Ottanta, l’aviazione d’Israele ridusse a zero il programma nucleare irakeno.

L’attacco avviene mentre la diplomazia europea sta faticosamente cercando di ricondurre l’Iran al rispetto dell’accordo del 2015 (un accordo a cui Netanyahu, e Trump durante il suo mandato, si opponevano con tutte le forze). Non è un’impresa facile: Teheran chiede l’abolizione completa delle oltre 1600 sanzioni che stanno fortemente danneggiando la sua economia, gli Stati Uniti, che nell’accordo rappresentano un elemento essenziale, fanno valere  che molte di esse si riferiscono al terrorismo, al programma missilistico, alla vendita di armi e alla violazione dei diritti umani. Washington non ha ancora deciso se implicarsi direttamente nei negoziati (il rischio politico per Biden è alto) o lasciar agire gli europei (Francia, Gran Bretagna e Germania).

Si può discutere se l’attacco a Natanz complichi gli sforzi diplomatici. A prima vista si direbbe di sì, ma a guardar bene non è così certo: penso che sia un bene che l’Iran si renda conto che il suo intento di diventare una potenza nucleare (che non ha nessun senso) incontra ostacoli potenti che possono bloccarlo o metterlo in pericolo ad ogni istante e comprenda che forse gli conviene negoziare la rinuncia alle sue ambizioni in cambio di sostanziosi vantaggi economici. Ma forse ciò significa attribuire una razionalità a un regime in mano a una casta di religiosi fanatici, retti da odi di un’epoca oscura.

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