Morte di un Ambasciatore

Sui diplomatici grava da sempre un persistente stereotipo, quello di una casta privilegiata che passa il suo tempo in cocktail eleganti e occupazioni frivole. Non so se sia stato così in un’epoca lontana – l’epoca delle Cancellerie e delle Corti sovrane – ma da molto tempo non è più vero o lo è solo molto parzialmente. Tra le sedi a cui può essere destinato un diplomatico nel corso della sua carriera, la maggioranza ormai sono in paesi difficili per condizioni di vita e di clima e talvolta pericolosi, e non è l’immunità diplomatica che può proteggere da questi inconvenienti, a cui sono esposti, non solo i funzionari della Carriera, ma le loro famiglie.

La morte del nostro Ambasciatore in Congo, il giovane Luca Attanasio (43 anni), in un barbaro attentato, assieme a un Carabiniere di scorta e al suo autista, è venuta tragicamente a ricordarcelo. Ma non è pura casualità: come altri colleghi, giovani e meno giovani, Attanasio concepiva il suo lavoro come impegno ad aiutare, partecipare, servire. Non è stato ucciso all’uscita di una festa, ma in una missione dell’ONU per la pacificazione di quel martoriato paese. Oltre 60  anni fa, un altro diplomatico italiano, Tito Spoglia,  Viceconsole a Elisabethville, vi era stato ucciso al tempo della rivolta del Katanga, nel tentativo di salvare un gruppo di suore italiane assediate nella loro missione.

L’Africa è dura, spietata, viverci è sempre una sfida, non fosse altro che per i rischi di salute. Lo so bene, per essere stato Ambasciatore in Nigeria negli anni Ottanta e aver visto attorno a me amici morire per la malaria o altre malattie peggiori (il mio predecessore era stato quasi un anno in coma per una rara infermità tropicale), ed aver schivato per poco un attacco di banditi nella strada per l’aeroporto.  Attanasio lo sapeva, avendo prestato servizio in varie sedi africane, tra cui proprio la Nigeria, ma aveva lo stesso dedicato la sua vita e il suo lavoro ai più disperati e demuniti. Non per nulla, aveva ricevuto, caso credo unico per un diplomatico, il Premio Nassiriya per la pace.

Non ho conosciuto questo giovane Ambasciatore, è entrato alla Farnesina due anni dopo che io ne ero uscito, ma avrei veramente voluto averlo come collaboratore, perché quello che ho sempre apprezzato nei colleghi più giovani era lo spirito di servizio e la dedizione al dovere.

La sua morte è ovviamente un caso estremo, ma deve ricordarci che il mestiere di diplomatico è fatto anche di sacrificio.

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