La vergogna

Chi meglio ha espresso l’indignazione davanti ai terribili fatti della sera di mercoledì a Washington è forse un giornalista della CNN che ha gridato, rivolgendosi a Trump: “shame, shame, shame” (vergogna, vergogna, vergogna). Non ci sono altre parole per esprimere la condanna e il disprezzo per un Presidente che, violando il suo giuramento di difendere la Costituzione e ogni altro sacro dovere, ha creato un’atmosfera di negazione e di odio, tentando di sovvertire il risultato chiarissimo di una libera elezione propagando menzogne senza ombra di prova, inventandosi una realtà immaginaria a proprio comodo e, dopo aver perso ogni possibile ricorso legale, ha cercato fino all’ultimo di obbligare il Congresso a rigettare il risultato del voto del Collegio Elettorale e poi, sapendo di non avere i numeri necessari nelle due Camere, ha tentato in extremis di forzare il Vicepresidente Pence, nella sua qualità di Presidente del Senato, a rigettare i risultati di autorità, usando un potere che la Costituzione non gli attribuisce. E quando Pence si è pubblicamente rifiutato di obbedire, ha scatenato la teppaglia che ha assaltato il Parlamento, invadendolo (obbligando Vicepresidente e parlamentari a rifugiarsi sotto protezione) e interrompendo per varie ore il dibattito nelle due Camere per la certificazione del voto.

Questo ha potuto riprendere solo dopo che la Polizia di Washington e la Guardia Nazionale hanno sgombrato l’edificio e il coprifuoco ha svuotato poco a poco i suoi dintorni. La certificazione è andata avanti fino a notte alta, quando finalmente, dopo un secondo, inutile tentativo di opporsi, le due Camere separatamente hanno respinto a grande maggioranza, con la partecipazione di decine di Repubblicani, ogni obiezione e Pence ha dichiarato Biden vincitore.

L’elezione del 3 novembre si è dunque finalmente conclusa e Joe Biden e Kamala Harris saranno inaugurati il 20 gennaio. Però le conseguenze di questa infausta giornata sono destinate a pesare a lungo. Mai era accaduto, almeno nella storia che ricordiamo, che il Presidente in una grande democrazia occidentale abbia deliberatamente provocato quella che molti, anche repubblicani autorevoli, hanno definito una insurrezione e un attacco terroristico alla democrazia, per afferrarsi al potere, fino all’ultimo rifiutandosi di condannare i terroristi (che ha definito “patrioti”). Così ha lacerato il tessuto della democrazia, che impone il rispetto delle istituzioni e il normale loro funzionamento e ha tra l’altro profondamente spaccato anche il Partito Repubblicano (che già, in gran parte per sua colpa, aveva perduto martedì la maggioranza al Senato con la vittoria di due democratici alle senatoriali in Georgia).

Nel dibattito parlamentare, i maggiori esponenti repubblicani al Senato hanno respinto le obiezioni alla certificazione del voto e, alla fine, solo 6 senatori su 50 hanno votato a favore. Alla Camera, i repubblicani a favore sono stati, com’era stato previsto, molto più numerosi, ma più di 70  si sono rifiutati di seguirli, rafforzando la maggioranza democratica. E in tutta la giornata di ieri giovedì si sono susseguite le dimissioni di protesta di membri dell’Amministrazione e dichiarazioni di esponenti repubblicani che condannano Trump. Un deputato repubblicano, come alti esponenti democratici, ha richiesto la immediata rimozione del Presidente, invocando un impeachment (molto improbabile) o il 25mo emendamento che permette al Gabinetto, su iniziativa del Vicepresidente, di dichiarare il Presidente incapace di governare. È dubbio che questo succeda (anche se Pence, insultato da Trump e minacciato di morte dai rivoltosi, avrebbe mille ragioni per vendicarsi) visto che comunque a Trump restano solo 12 giorni di mandato e forse non si vuole ulteriormente spaccare il partito ed eccitare la teppa.

La preoccupazione che il Presidente usi questi giorni per altre iniziative incendiarie naturalmente esiste, ma c’è da sperare che, dopo l’esperienza e le gravi mancanze emerse mercoledì, le Autorità preposte alla sicurezza ai vari livelli siano ora più attente e preparate. Intanto, Twitter, Facebook e Instagram hanno sospeso gli account di Trump e poche catene televisive sono disposte a diffonderne i messaggi. Altro è sapere se Trump possa essere perseguito penalmente per tradimento del giuramento costituzionale e incitazione alla violenza. Trattandosi di delitti federali, la decisione spetterà alla nuova Amministrazione, che probabilmente sarà molto prudente. Infine, bisognerà capire se il trumpismo, malgrado l’indegna fine di una presidenza funesta, sia destinato a pesare, e fino a che punto, nel Partito Repubblicano, dove alcuni personaggi, come il texano Ted Cruz, stanno cinicamente muovendosi per ereditare il patrimonio del Presidente all’estrema destra.

Poi c’è la questione delle conseguenze dei vergognosi eventi di mercoledì scorso nel mondo, e soprattutto tra le grandi democrazie occidentali. Che effetto d’esempio avrà il tentativo – anche se fallito – di sovvertire con la violenza il debito processo democratico in Paesi già percorsi da ondate di estremismo? Che credibilità avranno gli Stati Uniti come difensori della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani? Come rispondere all’aperta irrisione dei nemici della democrazia, dalla Russia alla Cina, dalla Corea del Nord all’Iran?

I fatti di Washington sono stati condannati, e Trump accusato come colpevole, da tutti i maggiori governi occidentali, da Johnson in poi. Solo Macron, però, ha espresso i sentimenti giusti, con un discorso mezzo in francese e mezzo in inglese, pronunciato sullo sfondo di una bandiera a stelle strisce, esprimendo la fede (e la speranza) degli europei nella resistenza e nella vittoria della grande democrazia americana, garanzia anche per le nostre, talvolta fragili, democrazie. È un invito che dovrebbe suonare agli orecchi anche di una classe politica italiana provinciale e attaccabrighe, portata sempre a far prevalere interessi di parte sul bene comune della libertà.

Quando Joe Biden assumerà, finalmente come legittimo, la Presidenza degli Stati Uniti, spetterà anche a lui, non solo cercare di ricucire le profonde lacerazioni create dalle mascalzonate di Trump nel tessuto politico americano, ma ridare agli Stati Uniti il ruolo di modello e protettore della democrazia nel nostro mondo.

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