Coronavirus, fact checking

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è diventato la nuova star della politica italiana, con un giro di valzer a 360° la maggioranza degli italiani, quel 55/60% afferente l’area di centro destra, che chiedeva elezioni anticipate, ora vede in lui una guida sicura con oltre il 70% di consensi. Se è vero che nei momenti di crisi si cerca una figura cui aggrapparsi, è dovere dei giornalisti porre domande, anche scomode – fare il cosiddetto fact checking – e domandare se è tutto oro quello che luccica nella gestione dell’emergenza Coronavirus.

Iniziamo dalla prima data che dobbiamo tenere a mente, il 19 gennaio viene diffusa la prima notizia relativa al Coronavirus, 1.700 casi rilevati a Wuhan in Cina, l’allarme arriva dagli scienziati dell’Imperial College di Londra guidato da Neil Ferguson, “Non c’è bisogno di essere allarmisti, ma l’ipotesi dovrebbe essere presa in considerazione seriamente”. A parte episodi di intolleranza verso la comunità cinese, le istituzioni alzano le antenne per capire cosa succede e informarsi sulla reale portata dell’allarme lanciato? La notizia resta marginale fino al 30 gennaio, quando due turisti cinesi vengono ricoverati allo Spallanzani di Roma. Evidentemente viene scoperto qualche cosa di particolarmente preoccupante nell’anamnesi dei sanitari, perché il 1 febbraio, a pagina 7-8 della G.U., abilmente infilato tra altre note di scarsa importanza, troviamo la dichiarazione dello stato di emergenza ufficiale: “Viene deliberato per sei mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili“. Tutto questo passa nella generale indifferenza senza che ne venga data la giusta importanza, eppure questi provvedimenti sono rari e presi in occasione di eventi quali terremoti, alluvioni e fatti di estrema gravità.

Il 20 febbraio le notizie in merito all’epidemia diventano forti, in Russia non perdono tempo a discutere più di tanto e alzano subito una barriera protettiva, Putin in 24 ore chiude tutte le frontiere esterne, annullati treni e voli da e per la Cina, chi entra in Russia va in quarantena direttamente, a oggi di vittime russe se conta una. E l’Italia? Si va avanti in ordine sparso a seconda dell’appartenenza politica e del sentimento dell’opinione pubblica prevalente, la tragica modifica che fu introdotta al Titolo V della Carta fa sì che le regioni vadano avanti ognuna per i fatti suoi, la sanità cambia passando un ponte e le regole anche. Salvini chiede di tenere aperto tutto, Zaia di riaprire quel poco che è stato bloccato, Conte e Speranza non si fanno sentire, mentre l’epidemia si spande e si hanno i primi riscontri in merito alla maggiore pericolosità verso gli anziani, abbiamo grigliate sui moli e passerelle nei centri anziani in comuni che diventeranno zone rosse ad alto tasso epidemiologico. Intanto arriva il primo decesso, il 27 febbraio a Vò.

Provvedimenti di emergenza? I più rilevanti sono il sindaco Sala che addirittura si esibisce in un video virale #milanononsiferma, si dovrebbe chiudere e lui invita tutti in piazza. L’aperitivo vede la partecipazione anche del segretario Zingaretti che infatti diverrà positivo al Covid19; non si tirano indietro nemmeno nella Venezia dell’intransigente Zaia, in Piazza San Marco offrono l’aperitivo gratis per richiamare gente; nello scorrere dei giorni scene evitabili da parte del governatore Fontana con apparizioni da consumato attore, ci regalerà infine anche la riesumazione di Bertolaso dal dorato esilio conseguente alla sua forzata messa a riposo sull’onda di svariate inchieste della magistratura (archiviate).

L’emergenza viene affrontata con la consueta efficienza e decisione da parte della politica italiana, il 2 marzo una nota tecnica dell’Istituto Superiore di Sanità chiedeva che nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi, venisse creata una zona rossa, come quella di Codogno. Quindi aree isolate e chiusura delle imprese. Quale è stata la risposta dell’esecutivo e della regione Lombardia? Il 9 marzo le piste da sci sono intasate di persone addossate le une alle altre, Il Dolomiti pubblicizza offerte speciali “Niente scuola, andiamo tutti a sciare!”; l’associazione degli impiantisti scrive “La neve è più forte del Coronavirus!”; la politica tace invece di provvedere, pare quasi di assistere a una pièce da decadente fine regime, se non fosse che intanto il Coronavirus ringrazia. Un primo decreto sulle imprese arriverà solo il 22 marzo, quello definitivo il 25. Nel frattempo nelle province di Bergamo e Brescia i morti ufficiali sono oltre 2.000, ma secondo i sindaci è una cifra ampiamente sottostimata. L’ondivaga gestione è durata settimane, con Dpcm emessi a giorni alterni sul lato della giacchetta tirata più forte in quel momento, una volta sono le regioni, un’altra Confindustria e affini, un’altra ancora i sindacati che si svegliano dal letargo per chiedere di chiudere le fabbriche, Kafka ne trarrebbe grande ispirazione. E’ così si passa dagli aperitivi #milanononsiferma al #iorestoincasa con l’esercito armato in strada come in certe repubbliche sudamericane, e per ora vi sono poche certezze e orizzonti non proprio rassicuranti, forse al #andràtuttobene è prudente aggiungere un (?) finale.

La Fondazione Gimbe, organo indipendente di ricerca e informazione in ambito sanitario, tramite il presidente Nino Cartabellotta, riporta che: “I numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti in ambito medico, all’informazione alla popolazione. Tutte queste attività erano previste dal Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute e successivamente aggiornato al 10 febbraio 2006. È inspiegabile che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio”.

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