Eutanasia, lotta tra guelfi e ghibellini

Il dibattito scaturito dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha reso la propria pronunzia sul caso Cappato, è noto a tutti e le posizioni delle parti sono ben chiare. Del resto in una nazione che, sembra da sempre, conosce solo il bianco e il nero, è quantomeno ovvio, addirittura scontato, che siano stati eretti due muri contrapposti e si siano formate le ennesime due fazioni inconciliabili e disposte a tutto fuorché al reciproco ascolto e al dialogo. Abbiamo preso come parametro di riferimento i guelfi e i ghibellini, ma tutto cominciò qualche secolo prima, con Mario e Silla, o con patrizi e plebei per finire in tempi più recenti a Coppie Bartali o Mazzola e Rivera. Muri fatti di granitiche pietre che sono le convinzioni degli uni contro gli altri; muri che hanno voce, ma non orecchie e ancor meno occhi. Ecco che troviamo da una parte gli assertori del diritto assoluto alla vita, dono e disponibilità assoluta di Dio, dall’altra i paladini del libero arbitrio e dell’autodeterminazione, della scelta personale.

Prima di commentare la vicenda specifica e prendere una posizione, magari cambiando idea (privilegio di chi ha un cervello proprio e non si lascia condizionare) attendiamo le motivazioni, ma prendiamo atto che la Corte ha emesso un provvedimento di portata epocale. Prendiamo però atto che, ancora una volta, i più entrano nel dibattito sulla base solo di idee, convinzioni, emozioni ma, quasi mai, sulla logica ovvero rileggendo lo scorrere dei fatti, magari, con un codice sotto mano. Ma per loro i codici sono solo un qualcosa di inutile e, chissà, sovversivo; da usare solo contro l’avversario al momento opportuno.

Che cosa è accaduto? Su che cosa è stata presa una decisione e, più che altro, perché? Ricordiamo (o forse rendiamo edotti i più), che la Corte Costituzionale è un organo, formato da 15 giudici, che ha, tra gli altri, il compito di decidere se una determinata legge sia compatibile e rispecchi valori e principi della Costituzione in vigore dal 1948. La Corte. Inserita nella Costituzione del 1948, si è insediata nel 1955 e, da allora, ha dichiarato costituzionali o incostituzionali, privandole di efficacia, numerose leggi emanate prima e dopo la sua creazione. La Corte Costituzionale è intervenuta su norme di ogni tipo, pronunziandosi a distanza di anni (non dimentichiamolo: anni), addirittura sulle stesse fattispecie per stabilire se, in quel momento storico e sociale, una determinata norma fosse compatibile con quella che è definita la Costituzione Materiale o Costituzione Vivente, che non è quella formale, vale a dire la rigida applicazione letterale della legge, bensì quella che si accerta di fatto: anche nel “sentire” della gente.

Esempi? Uno su tutti: l’accattonaggio o mendicità. Chiedere l’elemosina era previsto come reato dal Codice Penale; utilizzare trucchi che lo rendessero ripugnante o simulando deformità o malattie era addirittura un’aggravante. Quando venne chiamata a decidere se questo reato fosse compatibile con i principi della Costituzione, la Corte, nel 1959, rispose che punire l’accattonaggio era compatibile con la Costituzione, ma nel 1995, cambiando orientamento, la risposta ad un quesito sulla stessa materia portò ad una dichiarazione di incostituzionalità, cui seguì l’abrogazione del reato di mendicità. Chi avesse la voglia e la pazienza di leggersi gli interi provvedimenti, scoprirebbe uno spaccato della nostra storia.

Lo stesso è accaduto in quello che, ormai, è definito il caso Cappato. La Corte è stata chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale di una norma che, si noti, risale al 1930. Non si risponda senza riflettere e conoscere la storia; non ci si limiti dire che si tratta di norma vecchia o usare definizioni simili. Nel 1930 il Codice Penale, che è quello ad oggi in vigore, pur con numerosi tagli, modifiche e integrazioni, venne redatto sotto la guida di un giurista di altissimo spessore quale Alfredo Rocco. Le norme di questo codice continuano ad essere in vigore, ed anche attuali rispetto ad altre, scritte negli anni successivi, che sono sopravvissute per periodi infinitesimali.

Il Codice Rocco, non dimentichiamolo, venne promulgato un anno dopo la conclusione dei Patti lateranensi, che posero fine, almeno sulla carta, ad una disputa che si protraeva dalla presa di Porta Pia tra il Regno d’Italia e lo Stato del Vaticano, con conseguenze pesanti. Si poteva all’epoca, in un’Italia cattolica e bigotta, emanare norme spudoratamente contrarie ai valori della religione di Stato quale l’assistenza ad un suicidio?

Inoltre lo Statuto Albertino, addirittura al suo primo articolo, sanciva che “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Sono passati duecento anni e, diamone atto, la società è cambiata, il modo di pensare è cambiato, il mondo è cambiato. Coloro che si trincerano dietro vuote frasi fatte quali “la morale non ha età”, prendano atto che il concetto teorico di morale non è quello astratto che pretendono di attribuirgli, ma quello concreto che si attaglia alla realtà del tempo: un vestito su misura. Se negli anni venti del secolo scorso le donne si vedevano solo in abito lungo, ricordiamo che Mary Quant ha inventato la minigonna e, oggi, l’abbigliamento femminile è ancor più variato. Ed è solo un esempio.

La Corte Costituzionale nel caso Cappato ha preso in esame una norma scritta circa un secolo fa, circoscrivendola nei suoi confini e richiamando principi che sono oggi sentiti dai più e, sicuramente, non si è attenuta a canoni di una religione che non è più l’unica di uno Stato. Non viviamo in una teocrazia: non siamo l’Arabia Saudita.

Attendiamo le motivazioni, e ognuno potrà decidere se schierarsi tra i guelfi o i ghibellini: massima libertà nelle opinioni, ma la nostra Corte Costituzionale ha adempiuto al compito a cui è deputata.

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