Dai mini assegni ai mini Bot

Qualcuno diversamente giovane, o giovane dentro, giusto per usare una terminologia che non vada a urtare le sensibilità degli altri, ricorda sicuramente quando, negli anni settanta, al momento di ricevere il resto, in quasi tutti i negozi, si riceveva una gomma da masticare del valore di cinque o dieci lire, oppure un gettone della SIP invece di cinquanta lire. Era una prassi comune e, in alcuni casi, al posto delle monete potevamo trovarci nelle tasche dei francobolli o anche un biglietto dell’autobus. In ogni caso era sempre qualcosa che poteva tornare utile: un valore. Poi, improvvisamente, tra stupore, meraviglia e un po’ di fastidio da parte di qualcuno, arrivarono i miniassegni.

Si trattava di piccoli pezzetti di carta, emessi da numerose banche anche non di secondaria importanza (la prima a inventare questo sistema sembra sia stata la San Paolo nel 1975), che erano in realtà assegni circolari con un valore facciale che andava dalle 50 alle 350 lire; una cifra con la quale era anche possibile comprare un quotidiano e avere il resto magari per un caffè che, rispettivamente, nel 1976 costavano 150 lire e 120. Una delle tante piccole grandi novità con cui hanno dovuto far conto gli italiani negli anni post austerity e in cui questo strumento, oggi passato in mano ai collezionisti, doveva anche sopperire alla mancanza di moneta metallica. Ma per i ragazzi era forse preferibile avere un chewing gum che non questo pezzetto di carta da restituire alla mamma come resto della spesa.

Questa immagine è tornata alla mente quando si è sentito parlare recentemente dei mini bot recentemente dalla stampa. Una premessa è quantomeno opportuna per evitare una confusione sia tecnica, sia terminologica in cui sono incorsi in molti, specialmente a seguito di gravi manifestazioni di analfabetismo funzionale che si sono registrate sui social. I mini BOT, non sono i Mini Bond. Con quest’ultimo termine si intende la possibilità per aziende non quotate in borsa, di dimensioni medio-piccole, di emettere obbligazioni a medio e lungo termine per finanziare piani di sviluppo o di investimento straordinari. In termini diversi e forse più comprensibili si tratta della possibilità di emettere obbligazioni, cioè ricorrere ad una forma di finanziamento esterno, evitando il circuito bancario, rivolgendosi a investitori professionisti. È una figura introdotta dal Decreto Sviluppo bis del 2012, Governo Monti. I due vicepremier e altri membri dell’esecutivo che ne hanno parlato, non intendevano questo, come in molti hanno probabilmente capito, bensì l’emissione da parte dello Stato di titoli di credito “mini” per far fronte al proprio debito. Come dire, secondo quanto è stato dato possibile comprendere, lo Stato pagherebbe i propri debiti emettendo titoli con cui riconosce il proprio stesso debito, consegnandoli ai propri creditori che, successivamente, potranno presentarli all’incasso presso lo stesso Stato, già debitore. Viene da chiedersi, nel frattempo come potrebbero essere usati questi titoli. Forse si sarebbe cercato qualcuno presso cui scontarli o si sarebbe creato un mercato parallelo? Da qualcuno l’emissione dei Mini Bot è stata paragonata alla possibilità per lo Stato di riconoscere il proprio debito mediante un titolo di riconoscimento.

Nel caos generato da questa proposta e dalle successive prese di posizione, tutte negative, a cominciare da quella di Mario Draghi presidente della BCE che, correttamente ha rilevato come questo paventato mezzo di pagamento fosse, in realtà, o uno strumento illegale o la creazione di nuovo debito a carico della già martoriata cosa pubblica.

Ma che cosa emerge in estrema sintesi da questa vicenda che tocca il Governo? Il quadro non è dei migliori se per cercare di dare risposte su un problema grave e da affrontare come il debito pubblico si giunge a parlare, anche solo per un giorno, di strumenti che, giustamente, sono stati paragonati ai soldi del Monopoli. Diciamo che per molti è stata solo l’occasione di tornare con la mente all’epoca in cui, in cambio di alcune monete di resto, il negoziante compensava il proprio debito con qualche caramella e le banche con piccoli titoli che potevano circolare. Poteva andar bene in quegli anni in cui il valore dei mini assegni era di poche centinaia di lire. Oggi non si parla, però, neppure di poche centinaia di Euro.

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