Che succede in Gran Bretagna?

Capire quello che sta accadendo in Gran Bretagna e quello che potrà accadere nelle prossime settimane e mesi richiede uno sforzo eccezionale. Cominciamo dal Governo: Theresa May è ufficialmente dimissionaria dal 7 giugno, ed è appena iniziato il processo di scelta del successore alla testa del Partito Conservatore. Le prime votazioni non hanno dato un vincitore, ma hanno indicato un vantaggio di qualche punto in favore di Boris Johnson, il pittoresco e non proprio affidabile ex-Ministro degli Esteri, che ha fatto della Brexit la sua battaglia. La sua posizione è nota: la GB deve rinegoziare con l’UE un nuovo accordo, in modo da poter assicurare l’uscita per la data prevista del 31 ottobre; se non sarà possibile un accordo, allora l’uscita dovrà realizzarsi lo stesso, nella forma di un no-deal. Non è che tra i tanti altri contendenti alla guida del partito e quindi al posto di Primo Ministro si manifestino posizioni più morbide: la gara è piuttosto a chi è più intransigente.

Il fatto è che la battaglia ideologica per la Brexit si è trasformata in una lotta per la sopravvivenza politica dei Tory, schiacciati dal partito estremista di Nigel Farage alle Elezioni europee. La previsione è che tra i grandi elettori del partito prevarranno né il buon senso, né la considerazione dell’interesse del Paese, ma soltanto un’angosciata rincorsa a chi apparirà meglio capace di far fronte a Farage e recuperare il posto di destra, corsa nella quale Boris Johnson ha per ora le carte migliori.

Detto questo, il problema resta apertissimo. Il nuovo accordo che i candidati al trono conservatore promettono di strappare  a Bruxelles pare estremamente improbabile, il no-deal continua a spaventare una parte dei conservatori, tutti o quasi i laburisti, i liberaldemocratici, gli scozzesi e gran parte del mondo economico e finanziario. Una mozione parlamentare presentata dal laburisti per escludere l’uscita senza accordo è stata respinta per una dozzina di voti. I laburisti però, di fronte alla possibilità concreta che Boris Johnson sia il successore di Theresa May, paiono voler uscire dal letargo di ambiguità dimostratosi perdente alle Elezioni europee, dove il Labour ha perso una valanga di voti a favore dei liberaldemocratici, favorevoli a restare in Europa. Difficile è smuovere il loro leader, Jeremy Corbyn, disastrosamente esitante. Dall’interno del partito, però, aumentano le pressioni per uscire dall’ambiguità e chiedere finalmente, con chiarezza e ad alta voce, un nuovo voto popolare, o nella forma di Elezioni politiche o di un Referendum sulla Brexit. Esponenti laburisti preannunciano perciò un’estate di mobilitazione e di lotta, certo favorita dall’opporsi a un governo che avrà il segno della destra estrema.

Quanto all’UE, credo che in questa fase non debba e possa far altro che stare a guardare e lasciare le cose andare per il loro verso. Se alla fine di tutto gli inglesi rivedranno la decisione di andarsene, tanto meglio, ma se no, come penso e scrivo dall’inizio, che se ne vadano, con o senza accordo. Il costo più alto la pagheranno loro. Purché l’Europa voglia e sappia continuare nel proprio cammino.

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