Brexit, sempre peggio

Dopo il voto contrario del Parlamento all’accordo con l’UE, Theresa May avrebbe dovuto, in tutta logica, dimettersi, o rimanere, ma azzoppata e politicamente debolissima. I laburisti hanno commesso subito l’errore di presentare una mozione di sfiducia, che ha avuto l’unico effetto di ricompattare la maggioranza di governo, dando alla May una vittoria abbastanza comoda e un indubbio respiro.

Però il voto di fiducia, che prolunga la vita del governo ed evita le elezioni anticipate e lo spettro di una vittoria laburista, non risolve la questione di fondo dei rapporti con l’Europa. Questione ormai aggrovigliata sino al punto da parere inestricabile. I nodi centrali  dell’accordo restano irrisolti, soprattutto il problema del confine irlandese, e nessuna delle parti (Bruxelles e l’ala dura dei conservatori inglesi e degli unionisti) pare disposta a recedere.

Allora? Lunedì prossimo, Theresa May dovrebbe presentare ai Comuni un nuovo piano, che è quasi impossibile possa soddisfare ambedue le parti. Certamente la May cercherà disperatamente nelle prossime settimane di ottenere qualche concessione dall’Europa, ma è improbabile che ottenga abbastanza da ripresentarsi al Parlamento con la speranza di farcela. Francamente, non si vede perché Bruxelles, Parigi, Berlino, dovrebbero aiutare gli inglesi a uscire dalla palude in cui si sono cacciati da soli e deliberatamente. Fin qui, qualche apertura è venuta dalla Merkel, non sulla sostanza dei problemi aperti, ma sulla possibilità di dare a Londra un po’ di tempo in più rispetto alla scadenza del 29 marzo alla quale, con o senza accordo, la Gran Bretagna dovrebbe essere fuori dell’Unione. L’uscita senza accordo sarebbe traumatica per gli inglesi. Secondo un’anticipazione della Bank of England, il PIL cadrebbe dell’8%. Ma ci sarebbero conseguenze spiacevoli per gli oltre tre milioni di europei che vivono e lavorano in Gran Bretagna. I più (salvo un pugno di fanatici antieuropei inglesi) si augurano dunque cue un accordo in extremis sia trovato. Ma la strada appare lunga e tortuosa.

La verità è che il fallimento del governo conservatore di far passare un accordo negoziato tra mille difficoltà, in una democrazia avanzata come quella inglese, dovrebbe quasi automaticamente portare a nuove elezioni, che con una possibile vittoria laburista e liberale potrebbero forse portare a riaprire l’intera questione, eventualmente con un nuovo referendum, che in parecchi ora in Gran Bretagna apertamente reclamano. I fattori contrari restano l’ostinazione della May, aggrappata al suo posto, gli interessi di partito dei conservatori, ma anche il fatto che i laburisti, guidati da Jeremy Corbyn, rappresentano un’opzione troppo a sinistra da non spaventare l’establishment. Se alla guida del partito ci fosse oggi Tony Blair, le cose sarebbero diverse.

Ma così come stanno le cose, la vicenda della Brexit appare sempre più intricata. Monito a chi, a casa nostra, vorrebbe fare il galletto contro l’Europa, contro i nostri più diretti e più vitali interessi.

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