Immigrazione: miti e realtà

Una delle cose che più irrita chi ha sempre cercato di usare la ragione, è vedere come un argomento serio e importante come quello dell’immigrazione sia trattato con tanta superficiale leggerezza, rincorrendo, da una parte e dall’altra, miti irrazionali e usando, sempre dalle due parti, argomenti egualmente pretestuosi. Gettando, insomma, fumo negli occhi alla gente. Ciò è vero sia per chi agita fantasmi di invasione, sia per chi minimizza il problema.

Vediamo rapidamente due argomenti “buonisti” egualmente dubbi. Il primo: siamo storicamente un paese di emigrazione, quindi dobbiamo accettare ora di ricevere immigrati, come se avessimo contratto una specie di obbligo morale a rendere quello che abbiamo ricevuto in passato. Ma le situazioni sono ben diverse: i milioni di emigrati italiani che nei secoli scorsi hanno raggiunto terre lontane le hanno fecondate col loro lavoro, un lavoro spesso faticoso e in condizioni estreme. Coltivavano la terra, lavoravano nella costruzione o nelle fabbriche, presto passavano a professioni liberali.  Non andavano a inserirsi in società già sviluppate, attendendosi assistenza. Popolavano  territori immensi e vuoti. Portavano con loro i valori della nostra gente: attaccamento al lavoro, alla famiglia, rispetto della legge. Appartenevano alla stessa origine etnica  (per carità, non parliamo di razza) dei popoli con cui si mescolavano, erano di religione cristiana, in genere nel giro di una generazione o due si integravano perfettamente nelle società in cui vivevano.

Di tutti i Paesi in cui si sono installati, l’Argentina è l’esempio più chiaro. Non c’è settore dell’economia, della cultura, della scienza, delle arti, della politica, in cui la presenza italiana non sia importante e in tanti casi decisiva (basti pensare alle ultime elezioni presidenziali: i tre candidati principali erano tutti di origine italiana e della stessa origine erano due dei tre candidati alla Vicepresidenza). Molto semplicemente, senza gli Italiani l’Argentina non sarebbe quello che è ora.

Lo stesso si può dire, in misura statisticamente minore, per gli Stati Uniti, il Brasile, l’Uruguay,  il Venezuela, il Canada, l’Australia, dove sono innumerevoli le attività iniziate e fatte prosperare da italiani. Altrettanto vale anche per i Paesi europei, specie Francia, Germania, Belgio, Svizzera, in cui i lavoratori italiani sono andati nel dopoguerra, in genere come stagionali (ma poi in tanti si sono inseriti bene e sono rimasti) facendo vivere industria, commerci, attività sociali. Paragonare quella nostra emigrazione all’immigrazione dall’Africa o dall’Oriente è, a dir poco, un enorme errore di ottica partigiana.

Il secondo argomento ha più peso: senza immigranti, l’economia italiana decadrebbe, il PIL scenderebbe in qualche decennio alla metà, molte attività andrebbero deserte, il sistema pensionistico crollerebbe. Vero, forse, ma attenzione: di quale immigrazione stiamo parlando?  Quella generica, non qualificata, che viene a ingrossare le fila dei disoccupati o dei sottoccupati (se non, potenzialmente, quelle della piccola delinquenza)? O quelli che assumono lavori a cui gli italiani si sottraggono e fanno marciare parti della nostra economia (per esempio nell’agricoltura, specie al Sud)?

Vogliamo smetterla, da una parte e dall’altra, di fare di ogni erba un fascio? Paesi storicamente di immigrazione, come il Canada e l’Australia, hanno da tempo adottato politiche serie e coerenti: fissare quote, secondo i bisogni dell’economia e le capacità di assorbimento sociale, e fare quanto necessario e possibile per integrare gli ammessi. È davvero impossibile chiedere al nostro Governo di essere serio, di affrontare il problema statistiche alla mano, non a colpi di circolari ai Prefetti o di chiusure di porti, misure magari accettabili se inserite in un quadro organico complessivo?  Cominci intanto il Governo a dirci con esattezza quanti sono i clandestini e i non occupati, da che zone provengono, se è possibile rimpatriarli salvaguardando i principi elementari dell’umanità, non solo cristiana, ma civile. Ci dica finalmente di quanti stranieri ha bisogno, nel presente e in un prevedibile futuro, l’economia; come si può selezionarli e, se serve, addestrarli. Come possono essere integrati in modo da far parte armoniosamente della nostra società e sposarne i valori e la cultura. Che parte va comunque fatta ai casi veramente umanitari, a cui non va negato asilo. Tutto questo su un termine medio-lungo, non a colpi di propaganda.

Se Salvini vuole davvero avviare il problema, è questo che dovrebbe fare. È questo che gli Italiani hanno diritto di chiedere a un governo al quale hanno affidato le proprie preoccupazioni, le proprie ansie. Ma al quale non è possibile dare carta bianca perché gestisca – e manipoli – la situazione, secondo l’umore in cui si sveglia la mattina il Ministro dell’Interno.

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