Quarant’anni senza Chaplin

Ci sono persone che, più di chiunque altro, hanno influenzato la loro epoca e non solo. Immaginiamo soltanto quanto Napoleone abbia influito sulle vicende europee di tutto l’ottocento o il pensiero di Montesquieu e Voltaire sul secolo precedente, per non parlare di Lutero. Forse ciò è maggiormente vero per i grandi statisti, i condottieri, o uomini di scienza e cultura come Leonardo o Lorenzo il Magnifico; ma anche di Fleming e Colombo ben si può dire abbiano visto andare l’importanza delle loro scoperte ben oltre i loro anni.

Il secolo scorso è stato sicuramente influenzato da personaggi importanti e non sempre positivi. Non possiamo certo negare che Hitler abbia condizionato i fatti anche della seconda metà del novecento. Allo stesso modo ben si può dire che il mondo non solo della musica sia stato non poco influenzato dai Beatles, ma i quattro di Liverpool hanno inciso anche sul modo di vivere e, forse, di pensare. Un segnalibro della storia. Lo stesso si potrebbe dire anche di Disney e Paperino, ma prima però di loro, il ventesimo secolo aveva già visto un personaggio la cui influenza è forse oggi poco considerata, ma che, nel quarantennale della sua scomparsa, potrebbe e dovrebbe essere rivista.

Andare via definitivamente dalle scene proprio il giorno di Natale, è stato probabilmente l’ultimo colpo di genio di Charlie Chaplin, probabilmente il primo grande artista della settima arte e, comunque, il primo eroe conosciuto da tutti, e alla portata di tutti, che entrò nell’immaginario popolare come l’immagine e l’emblema del nascente cinema prima del divismo degli anni venti e di star come Valentino o Marlene Dietrich. Dal vaudeville al cinema ed ecco il piccolo vagabondo dagli occhi tristi ma con il sorriso sempre sulle labbra e il suo grande cuore. Immagini difficili da dimenticare e che hanno toccato non solo la sua generazione. Il genere cinematografico dello slapstick, fu portato da Chaplin ai suoi massimi vertici e le sue gag, basate anche su una fisicità particolare e una comicità comprensibile a tutti, quasi trasponendo il teatro dell’assurdo alle situazioni di vita quotidiana, sono probabilmente le scene che più di ogni altra hanno fatto conoscere il cinema e sono entrate nelle case con lui. Un cinema forse reso da lui popolare e più accattivante di Melies e Griffith, che non erano forse alla portata di tutti.

Poi il colpo di genio che dimostra la grandezza dell’artista: quello di trasporre il personaggio del vagabondo, sempre uguale e con la stessa faccia, nei lungometraggi che sono i suoi veri capolavori. La faccia di Chaplin, a differenza della maschera di Buster Keaton, inizia a muoversi e parla, senza bisogno del sonoro, ne Il Monello, in Luci della Città; il Circo e la Febbre dell’Oro. Un percorso nell’America di quegli anni che Chaplin fotografa, comprende e narra. Senza bisogno di parole. L’uomo della strada che vive ogni situazione e ne esce con la sua carica di ottimismo e, nonostante tutto, di fiducia nel prossimo.

Poco più di un ventennio la carriera di Chaplin come attore: dalle prime pellicole del 1914, anno in cui girò oltre venti film, fino al 1936 dove, in Tempi moderni, immaginò la nuova società industriale che si stava consolidando in un modo che lui non gradiva e di cui presagiva gli effetti negativi. Ma anche in quel film, che Chaplin volle girare muto nonostante il sonoro fosse ormai già cosa fatta, alla fine si trova il messaggio di speranza con il Vagabondo e la Monella, una grandissima Paulette Goddard, che vanno verso il futuro.

Chaplin non ha mai abbandonato il muto, forse il vero cinema, dove gli effetti speciali erano i volti degli attori. Solo davanti a un vero dramma ha usato la voce, e il finale de Il grande dittatore è l’eccezione alla regola: nel monologo finale c’è tutto Chaplin e la sua storia, la sua idea. Dopo quel film poco altro e, a parte la sua interpretazione di Luci della ribalta, film forse autobiografico che chiude il suo percorso, non lascia più una traccia importante nel cinema, se non un film da non ricordare come La contessa di Hong Kong. Poi il ritiro e le vicende private che lo portarono alla scelta di vivere in Svizzera a causa del suo presunto antiamericanismo. Probabilmente però, Chaplin era solo un pacifista ante litteram, come l’omino dei suoi film, sempre però pronto a dare un sonoro schiaffone al cattivo di turno. Buono sì, ma realista e calato in un’epoca non facile.

Quaranta anni senza di lui e senza quella risata che, se manca, fa sprecare una giornata.

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