Trump, virata a 180 gradi

Nelle ultime settimane il Presidente Trump ha impresso una virata a 180 gradi della politica estera proclamata in campagna elettorale, su punti importanti come la NATO, i rapporti con la Russia, la Cina.

Ricevendo il Segretario Generale dell’Alleanza, Stoltenberg, Trump ha dichiarato che la NATO “non è più obsoleta ora”; non ha peraltro rinunciato al reclamo per una maggiore partecipazione degli alleati alle spese di difesa comuni, ma questo è un tema ripetuto con maggiore o minor intensità anche dalle precedenti Amministrazioni americane. Trump lo risolleverà nel prossimo vertice dell’Alleanza, ma la tormenta suscitata in Europa dalle sue dichiarazioni precedenti sembra in buona parte superata. Buona notizia per chi crede, come me, che la NATO resti la pietra angolare della sicurezza dell’Occidente. D’altra parte Trump non avrà tardato a rendersi conto, una volta insediato alla Casa Bianca e circondato da militari e leader dell’intelligence americana, che per praticare una linea forte e assertiva gli Stati Uniti debbono rinunciare all’isolazionismo e mantenere viva e solida la rete delle alleanze tradizionali (che, ad esempio, permettono all’America di conservare basi stratetiche in tutto il mondo).

Dopo un incontro col suo omologo cinese, Trump ha poi fatto marcia indietro rispetto alle sue bellicose dichiarazioni contro Pechino, affermando che “la Cina non ha manipolato la sua moneta per ottenere indebiti vantaggi commerciali”. Le fonti di Washington affermano che la “chimica” tra i due leader è stata “buona”.

La bomba sganciata contro l’ISIS nella zona tra Pakistan e Afghanistan, se non rappresenta un vero cambio di linea nella lotta al terrorismo, costituisce però un innalzamento del grado di aggressività, del resto prevedibile data la volontà dichiarata dal Presidente di “distruggere lo Stato Islamico”.

Il giro più spettacolare, la nuova Amministrazione l’ha dato sulla Siria e, di conseguenza, sui rapporti con Mosca. L’attacco missilistico rappresenta una svolta nettissima rispetto alla politica di non intervento militare seguita da Obama, ma anche rispetto al precedente atteggiamento tutto sommato possibilista nei confronti di Bashar Assad. Le conseguenze nei rapporti con Putin dovevano essere naturalmente messe in conto. Come ho già scritto, molti analisti seri pensano che l’attacco avesse ragioni di politica interna: dimostrare che Trump non è arrendevole verso lo zar del Cremlino, smentendo così tutte le accuse che gli vengono mosse su questo terreno. C’è anche chi pensa che alla base ci sia un segreto accordo tra i due per liberare Trump da queste accuse e permettergli più in là di promuovere un riavvicinamento. Stento però a crederci: un po’ perché d’istinto diffido delle dietrologie, del troppo facile “cui prodest” (il mondo è sufficientemente folle da non richiedere sempre spiegazioni razionali), un po’ perché i danni inferti alle relazioni con la Russia rischiano di essere permanenti o comunque difficilmente riparabili a breve termine. I segnali sono numerosi: la polemica tra le due capitali si è riaccesa, il Segretario di Stato Tillerson ha accusato la Russia di “aggressione” all’Ucraina e i suoi incontri di Mosca si sono svolti in un’atmosfera glaciale. A quanto pare, Tillerson ha persino protestato contro le interferenze russe nella campagna elettorale (ricordiamolo: a favore del candidato Trump) definendole un provocazione seria.

E poi c’è la Corea del Nord, una mina vagante che nessuno sforzo diplomatico è riuscito finora a neutralizzare. È assurdo, pensiamo con la nostra mentalità cartesiana, che un piccolo, povero Paese voglia sfidare il mondo intero, forte di qualche missile a testata nucleare, e sapendo che potrebbe essere cancellato dalla faccia della Terra, ma Kim è un folle, totalmente chiuso nel suo parossistico isolamento e tutto è possibile. Bisognerà vedere ora se la linea di intimidazione scelta da Trump sarà realistica ed efficace. È presto per dire se l’intervento preventivo minacciato da Trump sia reale e non solo un mezzo per forzare la mano a Pechino e forse a Mosca perché a loro volta forzino la mano a Kim. Ma da certe prese di posizione è poi difficile tornare indietro.

Nell’insieme, il Presidente repubblicano vuole apparire come un leader forte e decisionista, pronto a usare tutte le risorse militari degli Stati Uniti per colpire i nemici dovunque siano. Secondo chi lo conosce bene, è un giocatore di poker, un negoziatore, che ritiene buona tattica cominciare sempre da una posizione di forza e di intransigenza, per poi eventualmente accettare un compromesso.

È certo che i nodi che ha lasciato irrisolti la Presidenza Obama (Medio Oriente, Corea del Nord, ISIS)  richiederanno molto talento pokeristico e, come ovvio, anche molta fortuna.

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