Ucraina, non ci dimentichiamo di lei

La minaccia terroristica di Daesh ci ha sviati dalla crisi ucraina. Ma quello che c’è in gioco da quelle parti interessa innanzitutto gli europei.

Certo, tra noi europei si percepisce il ritorno di una certa “spossatezza ucraina”. Questo sentimento era già apparso a metà del 2000 quando in Ucraina si era impantanato il processo di riforme in seguito alla Rivoluzione arancione del 2004. All’epoca si percepiva già più maturità politica tra i cittadini che tra i governanti. Questi avevano in effetti assolutamente perso l’occasione di trasformare il sistema politico, economico e sociale del Paese, soprattutto per il peso delle oligarchie. Gli europei salutavano le iniziative popolari, ma guardavano con indubbia lassitudine le élites di Kiev. Una nuova opportunità si è presentata all’Ucraina nell’autunno del 2013, con il movimento Euromaidan, ma quelle manifestazioni hanno lasciato il posto al conflitto nel Donbass dove il coinvolgimento della Russia è forte. Questo dimostra, se ce ne fosse bisogno, che l’Ucraina è un Paese essenziale per l’equilibrio dell’Europa, che ha delle responsabilità di buon vicinato, vedi, soprattutto, per una maggiore stabilità alle nostre frontiere.

Con l’occasione cerchiamo di capire quali attese si hanno oggi sulla capacità di trasformazione della società e delle istituzioni ucraine, all’interno come all’esterno, dei cittadini così come dei creditori e sostenitori internazionali. Le speranze di una rapida trasformazione sono state parzialmente deluse, ma importante è inserire le trasformazioni nella linea del  tempo. Nel 2004, come nel 2016, gli europei sono stati investiti da una certa insofferenza di fronte alla lentezza delle riforme ucraine. Ma è importante che questa forma di tedio non ci travolga inesorabilmente. Trasformare una Paese da un sistema politico ed economico post-sovietico a una democrazia liberale con un’economia di mercato necessita di molto tempo, soprattutto quando la crisi militare tuona.

Da parte sua, l’Unione Europea è molto meno in forma di dieci anni fa: è molto più pressante il problema Brexit che nuovi allargamenti ad Est o nei Balcani, senza dimenticare la saga greca che continua a lasciare tracce. Le tensioni tra UE e Russia hanno raggiunto il culmine dopo la dissoluzione dell’URSS, mentre le derive autoritarie di Ungheria e Polonia fanno sempre più proseliti. Ma il “disinteresse” nei confronti dell’Ucraina sembra avere un’altra natura, molto più grave: l’Europa è stanca. Come non capirla. Gli attentati e la questione dei rifugiati hanno fatto si che la crisi siriana abbia messo nell’ombra l’interesse per l’Ucraina. Ma non possiamo chiudere gli occhi e lasciarla alle sue difficoltà, perché parte degli squilibri che attraversano il continente europeo troveranno una soluzione in Ucraina. Innanzitutto militarmente. Una stabilizzazione del fronte ucraino contribuirà ad abbassare le tensioni sul continente intero. Se gli accordi di Minsk2 hanno permesso una certa decelerazione delle ostilità, queste non sono mai cessate del tutto. Dal 2015, ci sono stati alcuni progressi e le diverse parti coinvolte nel conflitto hanno riconosciuto che la soluzione della crisi sarà di natura politica più che militare. Questi accordi vanno seguiti anche come preambolo per un’eventuale rimozione delle sanzioni alla Russia. Toglierle in modo incondizionato screditerebbe ulteriormente l’azione dell’Europa già abbastanza criticata. Certo è che il Donbass resterà una zona molto calda, in pieno cuore dell’Europa, motivo in più per non distogliere lo sguardo.

In secondo luogo economicamente. L’Ucraina si è avvicinata ai mercati europei inseguito all’accordo di libero scambio entrato in vigore il 1° Gennaio del 2016. La vera sfida consiste nel trasformare l’economia ucraina e renderla competitiva, il tutto nel rispetto delle norme europee. La lotta contro la corruzione rimane una sfida immensa, per  via della concentrazione delle ricchezze nelle mani di quella élite che ha saputo forgiare un sistema a suo vantaggio. Sul piano della governance, grandi cantieri, come la decentralizzazione, aspettano gli ucraini, e i Paesi membri dell’UE hanno in mano tutto il Know-how necessario per accompagnare Kiev in questi cambiamenti profondi.

Infine politicamente e tenuto conto dei due punti precedenti, la normalizzazione delle relazioni tra l’UE e la Russia passa necessariamente dal miglioramento delle sorti dell’Ucraina, più che dal suo imbarazzante oblio. L’alternativa non è tra l’abbandono dell’Ucraina per piacere alla Russia o la guerra alla Russia per salvare l’Ucraina, ma dalla combinazione degli interessi divergenti, e alla soluzione dei conflitti. Senza Kiev, nessun possibile miglioramento delle relazioni tra l’Europa e la Russia; senza miglioramento delle relazioni russo-europee, nessuna possibilità per gli stati limitrofi di svilupparsi nelle condizioni migliori possibili. Senza sviluppo nessuna pace, neanche sociale, è possibile.

Il futuro dell’Ucraina sarà rivelatore delle capacità dell’Europa nel costruire il suo di futuro, nello spirito del suo ideale più importante – la pace – e a sviluppare delle relazioni più ampie e più equilibrate con il suo vicinato geografico, storico, culturale e politico. Quello che c’è in gioco in Ucraina è anche una parte del nostro destino comune.  Pochi giorni fa sono ripresi i combattimenti nell’est dell’Ucraina, è difficile dire chi ci sia all’origine di questi nuovi combattimenti. Si può spiegare forse attraverso il contesto globale e l’incertezza della posizione dell’Amministrazione Trump su questo dossier. La nuova amministrazione ha mandato segnali contrastanti, ci sono state dichiarazioni a favore di Kiev, soprattutto da parte della nuova rappresentante americana alle Nazioni Unite. Ma nello stesso tempo Trump ha espresso la  volontà di costruire i suoi rapporti con la Russia su nuove basi. Gli attori sembrano tirare la coperta (già troppo corta) ognuno dalla sua parte. L’Europa ha ribadito il rispetto degli accordi di Minsk. E questa può essere l’occasione di mostrare la sua capacità di irradiarsi, sotto tutti i punti di vista, in uno Stato partner, senza sentirsi in dovere i offrigli prospettive di adesione immediata.

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