Trump, un buon affare per la Cina?

Dopo la vittoria di Trump, la Cina teme una guerra commerciale, anche se il tropismo isolazionista del neo eletto presidente repubblicano non gli dispiace poi troppo.

La preoccupazione aleggia sull’Asia all’indomani della vittoria “inaspettata” di Donald Trump. La regione economica più dinamica del mondo si è svegliata completamente intontita. Governi e magnati cercano già di quantificare  le conseguenze di questo terremoto politico che potrebbe sconvolgere l’equilibrio strategico nel Pacifico. Una “rivoluzione culturale” all’americana, scrive il quotidiano cinese Global Times, che paragona l’onda populista Trump al movimento anti-élite dell’era maoista. Questo audace parallelo mostra la preoccupazione degli strateghi di Pechino, che vedono in questo risultato inatteso un segnale “storico”. “La vittoria di Trump simboleggia il declino dell’Occidente”, riassume sul Global Times Shi Yinhong, professore dell’Università Renmin di Pechino (What a Trump presidency means for US-China ties, Global Times, 9-11-2016). Agli occhi degli osservatori asiatici, questa vittoria apre una nuova era, contraddistinta dall’irreversibile calo della presenza americana in Asia e nel Pacifico, preponderante dal 1945. Un cambio di rotta importante sia per gli alleati dello Zio Sam, soprattutto Giappone e Corea del Sud, che per il grande rivale, l’Impero di Mezzo.

Un’accelerazione del corso della Storia che ha preso alla sprovvista gli strateghi della Cina rossa, che più di tutto detestano l’incertezza. Un anno prima del suo Congresso, il Partito Comunista cinese avrebbe preferito la stabilità affinché il numero uno Xi Jinping mantenesse la sua autorità. Ma il grande drago sa anche dare prova di destrezza. Se è vero che la Presidenza Trump può, nel breve termine, essere foriera di pericoli inattesi per il regime, a medio termine  gli può fornire grandi opportunità strategiche. La preoccupazione principale del Politburo è di carattere economico. I timonieri della seconda potenza mondiale temono una guerra commerciale che arriverebbe nel momento peggiore, ossia quando il PIL si trova ai livelli minimi da 25 anni a questa parte. Le promesse protezionistiche del candidato repubblicano, che ha giurato imporre dei dazi doganali del 45% sui prodotti cinesi, potrebbe infliggere un duro colpo all’industria del gigante cinese e far così ripiombare il commercio mondiale in una nuova recessione. Uno scenario catastrofico per gli economisti asiatici, che puntano da decenni sulle esportazioni , che vedono già all’orizzonte spuntare la possibilità di disordini di carattere sociale. Attraverso i media ufficiali, Pechino ha già messo in guardia il Presidente eletto, sventolando la minaccia di rappresaglie commerciali.

Ma il tropismo isolazionista di Trump potrebbe essere manna caduta dal cielo per la potenza cinese, un rinascimento in campo strategico. Avendo messo in forse il mantenimento di truppe americane in Giappone e in Corea del Sud durante la sua campagna elettorale, Trump ha aperto la porta alla possibilità di un passo indietro delle forze armate americane nel Pacifico, obiettivo strategico che l’Esercito Popolare di Liberazione (APL). Se le sue dichiarazioni non avranno conseguenze immediate, hanno già inconsciamente  messo in agitazione gli alleati di Washington, da Singapore a Seul, passando per Tokio. Più che mai le capitali asiatiche dubitano sulla determinazione americana di fare stabilmente da contrappeso nella regione al gigante cinese. Pragmatiche per natura, la maggioranza, soprattutto nel Sud Est asiatico, si riavvicina a Pechino, che ritrova così il ruolo di sovrano regionale che fu suo per siecoli. I più indipendenti, come il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe, vedranno nel ripiego americano un incoraggiamento a rafforzare il proprio arsenale militare, con forse la tentazione di sviluppare una propria bomba atomica.

E’ l’insieme della strategia di “pivot asiatico” costruita dal Presidente uscente Obama ad essere messa in discussione. Donald Trump ha già offerto sul vassoio d’argento un regalo di benvenuto a Pechino dichiarando nato-morto il Trattato di libero scambio Trans-Pacifico (TTP). Questo accordo, negoziato dall’Amministrazione Obama con undici Paesi del Pacifico, tra i quali troviamo Giappone, Vietnam, Singapore e Malesia, rappresentava le fondamenta di tutta l’architettura sulla quale si basava la politica di imbrigliamento dell’influenza cinese da parte di Washington. Preoccupava molto Pechino che ne era stato escluso disegnando una zona economica che contestava la sua supremazia proprio alle sue porte. Ormai il TTP che attendeva di essere ratificato dal Congresso, è clinicamente morto, lasciando i Paesi asiatici senza altra possibilità che quella di rafforzare i legami con il loro gigantesco vicino, nel bene e nel male. Pechino non può che ringraziare.

©Futuro Europa®

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