Srebrenica ancora in lotta per la normalità dopo vent’anni
Mentre Aleksandar Vucic si invitava a Srebrenica, una manifestazione in omaggio alle vittime bosniache veniva vietata a Belgrado. Veramente Vucic con la sua partecipazione alla cerimonia commemorativa ha voluto lanciare un messaggio di pace? Venti anni dopo la riconciliazione sembra farsi ancora attendere e la gente di Srebrenica sogna (ancora) la normalità.
Srebrenica, il solo nome fa venire i brividi. Lì, ai confini con la Bosnia- Erzegovina, vicino alla frontiera con la Serbia, fu commessa, venti anni fa, l’11 Luglio del 1995 (e i giorni che seguirono), una delle peggiori atrocità vissute dall’Europa dalla Seconda Guerra Mondiale in poi: il massacro, definito genocidio dal Tribunale penale per l’ex-Yugoslavia (TPIY), di 8000 tra uomini e adolescenti, tutti musulmani, uccisi, sgozzati dalle forze serbe di Bosnia dirette dal generale Ratko Mladic nel bel mezzo di una zona sotto protezione delle Nazioni Unite, sorvegliata da un battaglione di caschi blu olandesi. Se recandosi a Srebrenica Vucic voleva lanciare un segnale di distensione, ha completamente mancato l’obbiettivo. Appena la sua scorta ha tentato di entrare nel Memoriale di Protocari, dove sarebbero stati sotterrati i resti di 136 vittime del massacro, identificate nell’ultimo anno, il Primo Ministro serbo è stato strattonato e cacciato a colpi di pietre. Aleksandar Vucic è dovuto fuggire, prima di riprendere precipitosamente la strada per Belgrado. Non dimentichiamo che 10 anni fa, l’ex Presidente serbo Boris Tadic aveva fatto un gesto simile, recandosi alla cerimonia annuale per la commemorazione delle vittime di Srebrenica dove presentò le scuse ufficiali del suo Paese. Il gesto allora fu accolto positivamente dalle associazioni dei sopravvissuti, ma la partecipazione di Vucic non aveva lo stesso significato. Durante la guerra, quando militava nei ranghi del Partito radicale serbo, una formazione ultranazionalista di estrema destra, Aleksandar Vucic aveva dichiarato apertamente: “per un Serbo ucciso, bisogna uccidere 100 musulmani”. Parole che, dopo 20 anni non sono affatto state dimenticate.
Il ventesimo anniversario è trascorso avvolto da un’atmosfera molto tesa, dopo l’arresto in Svizzera, lo scorso 10 Giugno, dell’ex comandante della difesa bosniaca, Naser Oric. Oric ha detto non aver assistito alle commemorazioni per “evitare provocazioni”. Inoltre, Mercoledì 8 Luglio la Russia ha posto il suo veto al progetto di Risoluzione presentato dall’Inghilterra davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che evocava esplicitamente il “genocidio” commesso a Srebrenica dalle forze serbe. E’ un termine che la Serbia rifiuta da sempre di utilizzare, argomentando i numerosi massacri commessi durante la guerra contro tutte le comunità. Ancora una volta l’uso della parola “genocidio” risulta tabù. Aleksandar Vucic aveva deciso di recarsi alla cerimonia, anche se le autorità di Sarajevo avevano sottolineato che non era ospite gradito e che non avrebbero potuto garantire la sua sicurezza. Le autorità serbe oggi mettono in causa la reazione della polizia bosniaca, puntano il dito sul “fanatismo religioso” degli assalitori evocando il possibile ruolo giocato da “hooligan” bosniaci arrivati apposta da Novi Pazar, città del Sud della Serbia e a maggioranza musulmana. La decisione di Vucic di recarsi a qualsiasi costo a Srebrenica era stata apprezzata dalle capitali occidentali, soprattutto da Washington, ma le motivazioni che hanno spinto il Primo Ministro rimangono fumose. Basta pensare al fatto che proprio mentre era in viaggio per Srebrenica, veniva vietata di fronte al Parlamento serbo una manifestazione pacifica per commemorare le vittime bosniache. Se è oscuro il vero motivo della sua mossa a dir il vero poco “diplomatica” (complicheranno senz’altro ulteriormente il già difficile processo di riconciliazione regionale), è sicuro che Aleksandar Vucic sfrutterà questi eventi sulla scena politica interna.
Venti anni dopo la fine della guerra non si riesce a far emergere una memoria comune degli eventi. Il bilancio del TPIY è povero e le sentenze vengono contestate dai due Paesi. Anche progetti come quello di creare la Commissione verità e riconciliazione non hanno potuto decollare. Ma se Vucic non sembra essere il più adatto per lanciare, in modo credibile, un “messaggio di Pace”, non va neanche usato come capro espiatorio. Milorad Dodik, Presidente delle repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, nonostante si sia recato al Memoriale di Potocari lo scorso Aprile, recentemente ha affermato che il genocidio fosse una “bugia”, un’esagerazione, esprimendo il pensiero di molti serbi di Bosnia. Corruzione e sottrazione indebita dei soldi delle donazioni internazionali per Srebrenica da parte delle istituzioni locali compromettono (o boicottano?)la ricostruzione e il suo ritorno alla normalità, quindi sofferenza e amarezza. Ai drammi della guerra si aggiungono le ingiustizie del dopoguerra delle quali sono vittime sia i musulmani che i serbi.
La storia sanguinaria della regione è un fardello pesante da portare, gli equilibri difficili da mantenere e la vita va ancora conquistata giorno per giorno. La riconciliazione un lavoro duro ed estenuante che tutte le parti in causa devono volere. Srebrenica , simbolo di tanta violenza, deve diventare anche il simbolo della rinascita, per tutti.