Isole galleggianti, plastic bag al bando dall’Europa

Seguendo l’esempio dell’Italia, che per prima nel mondo ha messo al bando nel 2011 i sacchetti in plastica più inquinanti e cioè quelli monouso in polietilene, l’Europa bandirà lo stesso tipo di sacchetti entro il 2019. Si tratta di un primo passo, fondamentale, nella lotta all’inquinamento dovuto alla plastica, un materiale non biodegradabile che attraverso la fotodegradazione sta entrando nella catena alimentare anche umana. L’eredità dell’era della plastica è l’accumulo, dal 1950 ad oggi, di isole galleggianti come quella del Pacifico centrale, grande come la Spagna e profonda trenta metri. Analoghe isole sono in Atlantico e Indiano, e si stanno formando nel Mediterraneo tra Liguria, Francia e Spagna.  La plastica si fotodegrada fino a sembrare plancton e attraverso meduse e pesci entra nella catena alimentare fino all’uomo: un pessimo affare col Progresso per l’Umanità che l’Europa, con in testa il nostro Paese, ha deciso di rinegoziare.

I legislatori europei hanno guardato al modello italiano, che in soli tre anni ha ridotto del 50% l’uso degli shopper inquinanti: un esempio che si deve all’iniziativa di Francesco Ferrante, Vicepresidente del Kyoto Club, autore dell’emendamento che introdusse nella legislazione italiana il divieto degli shopper in vigore dal gennaio 2011. La decisione europea è giunta con l’approvazione di una proposta di direttiva da parte della Commissione Ambiente del Parlamento Europeo. La proposta prevede la riduzione dell’80 per cento entro il 2019, ma già del 50 per cento entro il 2017, dello stesso tipo di sacchetti banditi in Italia: quelli più leggeri in polietilene, che sono anche i più comuni e inquinanti. Gli obiettivi di riduzione dei sacchetti di plastica saranno confrontati con l’uso medio dei sacchetti nella UE a partire dal 2010. La direttiva dovrà essere votata nella sessione plenaria di Strasburgo del 14-17 aprile.

Il provvedimento in realtà si presenta articolato, abbastanza da non mettere in seria difficoltà i settori dell’economia coinvolti: gli oneri imposti ai negozi rivenditori dovrebbero essere abbastanza alti da scoraggiare l’uso dei sacchetti di plastica leggeri, ma non sarà scoraggiato l’uso di contenitori riutilizzabili più volte. Sarà consentito uno sconto del 50% per i sacchetti biodegradabili e compostabili negli Stati membri che hanno una infrastruttura rifiuti organici biodegradabili separata. Una ulteriore deroga è stata aggiunta per i sacchetti ultra-leggeri, mentre i sacchetti di plastica di spessore non sono stati aggiunti alla relazione in quanto possono essere riutilizzati almeno 50 volte. Per fare alcuni esempi, gli Stati dovrebbero adottare misure, come tasse, imposte, restrizioni o divieti di commercializzazione, per garantire che i negozi non forniscano contenitori di plastica gratuiti, ad eccezione di quelli utilizzati per avvolgere alimenti come carne cruda, pesce e prodotti lattiero-caseari. I contenitori di plastica utilizzati per frutta, verdura e dolci dovranno invece essere sostituiti dal 2019 da sacchetti in carta riciclata o da sacchetti biodegradabili o compostabili. Insomma, non una rivoluzione ma piuttosto una riforma che dovrebbe consentire a ciascun Paese di adottare le soluzioni più idonee al conseguimento degli obiettivi e che non dovrebbe impensierire né l’economia, neanche l’importante industria italiana della plastica, né i consumatori ma solo resettare, attraverso un uso razionale dei materiali, il sempre più complicato rapporto ambiente-uomo-plastica.

C’è ovviamente da sperare che interventi come quello europeo, che potrebbe essere imitato da altri Paesi, portino ad una evoluzione dell’industria della plastica a livello mondiale. Industria che dovrebbe essere orientata in due direzioni: oltre a sviluppare materiali meno inquinanti, dovrebbe essere messa nelle condizioni di guardare alle ‘isole galleggianti’, per ora considerate semplicemente come problemi di costosa soluzione, come risorse da sfruttare. Se, infatti, iniziative positive come la diffusione della raccolta differenziata ma anche la nuova direttiva europea stanno riducendo a monte l’immissione di plastica nell’ambiente, il problema dell’enorme stock di polimeri dispersi in mare in sessant’anni di boom della plastica rimane una bomba ecologica dal peso insostenibile. Restando alle sole isole galleggianti (per non parlare di quello che per decenni è stato interrato nelle discariche di tutto il mondo) si tratta di numeri imponenti: per l’isola del Pacifico, nota come Pacific Plastic Vortex e situata approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord, si stima una estensione che va da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km² e una consistenza che, nelle ipotesi più pessimistiche, arriva a 100 milioni di tonnellate di plastica. Per quella dell’Atlantico, nel mar dei Sargassi, si ipotizza una consistenza di 3,5 milioni di tonnellate di plastica. All’origine delle isole, sessant’anni di sversamento sistematico di rifiuti plastici in mare. Ma anche episodi accidentali, come i recenti tsunami in Indonesia e in Giappone e la caduta accidentale di container in mare.

Numeri minori ma altrettanto inquietanti, considerata la ridotta estensione dello specchio d’acqua, per quanto riguarda il Mediterraneo: secondo Legambiente, sono 500 le tonnellate di rifiuti in plastica galleggianti nel nostro mare. Secondo l’Istituto francese di ricerca sullo sfruttamento del mare e l’Università belga di Liegi, nell’estate 2010 la concentrazione maggiore si trovava nel nord del Tirreno e a largo dell’Isola d’Elba: 892.000 frammenti plastici per km2, rispetto ad una media di 115.000. Un dato fondamentale, che dà un senso particolare alla decisione europea, è quello che durante tre campagne oceanografiche effettuate nel 1994-1995-1996 sulla costa francese del Mediterraneo, il 70% dei rifiuti rinvenuti in mare erano proprio sacchetti di plastica. Ma questo dato non deve distogliere l’attenzione sul Mediterraneo per quanto riguarda inquinanti affini, come il polistirolo del tipo usato per i contenitori del pescato: come rileva da anni il monitoraggio di Accademia del Leviatano, questo inquinante è concentrato in tratti di mare come l’area tra il Lazio meridionale e le Isole Pontine. Il monitoraggio, che sta dando informazioni sempre più precise sui rifiuti in mare, è realizzato dal network internazionale che monitora i cetacei coordinato da ISPRA del nostro Ministero dell’Ambiente: vi partecipano anche la Fondazione CIMA, l’Università di Pisa, l’AMP di Capocarbonara, l’associazione Ketos, oltre agli enti francesi EcOcean e GIS3M e quelli Tunisini Ass. Atutax ed Università di Bizerte. La ricerca è realizzata utilizzando i traghetti di linea di Corsica-Sardinia Ferries e Grimaldi Lines

Ridurre, fino ad annientarlo, l’inquinamento dovuto alla plastica salverà la biodiversità e le specie marine, cosa che potrebbe non interessare tutti; ma eviterà gravi danni alla salute umana, e questo dovrebbe interessare tutti. Perché, se finora a pagare le spese del problema sono stati soprattutto i mammiferi marini e le tartarughe che scambiano le parti di sacchetti di plastica per meduse, col passare dei decenni la lenta fotodegradazione sta riducendo le masse di plastica in filamenti sempre più piccoli: frammenti scambiati dai pesci per plancton, piccoli pesci e microrganismi e che quindi, per questa via, stanno entrando anche nella catena alimentare delle specie marine sfruttate industrialmente per l’alimentazione umana. Il punto è che lo stock in fase di avanzata fotodegradazione è proprio quello più ‘antico’, che tuttavia il Mare con le sue correnti ci fornisce già aggregato in isole, consentendoci di raccoglierlo più facilmente. Certo, non si tratta di materiale raffinato e separato, e dunque sfruttabile dall’industria del riciclo con facilità, oltre a trovarsi in condizioni di difficile accessibilità; ma in fondo una filiera simile a quella della pesca, anch’essa organizzata con raccolta e separazione del pescato, che viene prelevato da navi a migliaia di miglia di distanza dalle basi a terra, non dovrebbe essere difficile da immaginare come dimostrano i numerosi progetti già ideati.

Di certo il problema è grave ed è urgente. Oltre a limitare l’immissione di plastica in mare, si mettano ora in campo strumenti ed incentivi per favorire la raccolta e lo smaltimento del contenuto di queste immense discariche del mare. Le migliori idee in campo, c’è da scommetterci, ce l’ha già in mente qualche ricercatore italiano.

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