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“So di non sapere”, sinonimo di cultura

C’era un tempo in cui il problema principale era l’analfabetismo. Milioni di persone non sapevano leggere né scrivere e l’istruzione era la chiave per uscire dall’ignoranza e dall’emarginazione. Oggi quel problema sembra risolto, almeno nei numeri. Le statistiche dicono che quasi tutti sanno leggere e scrivere, eppure mai come in questi anni la qualità del pensiero è crollata. Non è più una questione di alfabetizzazione, ma di capacità critica. La scuola ha insegnato a decifrare parole, ma non a comprenderle davvero. Si leggono frasi, ma non si afferrano i concetti. Si assorbono nozioni, ma non si sviluppa il senso del dubbio. Il risultato è che una parte crescente della popolazione è convinta di sapere, senza sapere davvero.

Un tempo, per farsi un’opinione, bisognava studiare, approfondire, ascoltare chi ne sapeva di più. Oggi basta un meme, un titolo ad effetto, una frase sentita per caso su un social. Un tempo si conosceva il valore del silenzio, oggi tutto è trasformato in un’opinione immediata, espressa con certezza assoluta e senza alcun filtro. Il mondo è diventato un’arena di presunti esperti, di tuttologi improvvisati che parlano di qualunque argomento con la sicurezza di un docente universitario, senza aver mai aperto un libro sull’argomento.

L’effetto Dunning-Kruger spiega perfettamente questo fenomeno. Chi sa poco tende a sopravvalutare enormemente le proprie competenze, perché non ha nemmeno gli strumenti per capire quanto sia vasto ciò che ignora. Chi invece ha studiato davvero sa che la conoscenza è complessa, sfaccettata, piena di incognite. Ma in una società in cui vince chi urla più forte, il dubbio è un segnale di debolezza. Il primo che si lancia con sicurezza in un’affermazione diventa immediatamente il punto di riferimento per migliaia di persone in cerca di risposte facili.

I social hanno amplificato questo fenomeno fino al paradosso. Un tempo, se si voleva intervenire su un argomento, bisognava avere una competenza riconosciuta. Oggi chiunque può pontificare su qualsiasi cosa, senza alcun filtro. Un post ben confezionato, una frase virale, un’opinione che suona bene, e in pochi minuti un’idea priva di fondamento può diventare verità assoluta per migliaia di persone. Gli esperti vengono ignorati o ridotti a una voce tra tante, schiacciati dalla massa di commentatori convinti che la propria opinione valga quanto quella di chi ha dedicato la vita allo studio di un tema.

Lo scroll compulsivo ha ulteriormente peggiorato la situazione. L’attenzione media di una persona sui social dura pochi secondi, il tempo di leggere un titolo o di guardare un breve video. Nessuno si sofferma, nessuno approfondisce, nessuno verifica le fonti. Si scorre senza sosta, saltando da un argomento all’altro, senza mai fermarsi a riflettere. L’atto stesso del pensare è diventato qualcosa di estraneo, un’attività troppo lenta per i ritmi del mondo digitale.

A tutto questo si aggiunge una scuola che ha smesso di educare al pensiero critico. L’insegnamento non è più una sfida, ma un processo burocratico, sempre più attento a non urtare sensibilità piuttosto che a stimolare il ragionamento. Gli insegnanti devono preoccuparsi più di non offendere che di trasmettere conoscenza. La discussione è stata sostituita dall’indottrinamento, il dibattito dall’uniformità di pensiero.

La politica non è immune a questo degrado culturale. I discorsi sono ridotti a slogan, le campagne elettorali si vincono con frasi a effetto, il consenso si costruisce non sulla base di ragionamenti, ma sulla capacità di toccare le emozioni giuste. Le divisioni ideologiche si sono trasformate in scontri tribali, in cui non conta chi ha ragione, ma chi riesce a demonizzare meglio l’avversario. L’opinione pubblica è sempre più manipolabile, sempre più incline a seguire chi offre soluzioni semplici a problemi complessi.

Il problema non è solo la quantità di informazioni disponibili, ma la loro qualità. Il mondo di oggi è saturo di notizie, ma sempre più povero di conoscenza. La differenza tra informarsi e capire si è assottigliata fino a scomparire. La cultura del dubbio è stata sostituita dalla certezza arrogante. La capacità di riflettere è stata sacrificata in nome della rapidità.

Eppure, la soluzione sarebbe semplice. Fermarsi. Leggere sul serio. Ascoltare chi ha esperienza. Dubitare delle risposte troppo facili. Smettere di scrollare senza sosta e cominciare a ragionare. Ma il pensiero richiede fatica, e la fatica è diventata il nemico numero uno del nostro tempo.

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