Il “vende-patria”

Nei giorni scorsi, è uscito in America un libro sconvolgente del giornalista Craig Unger, American Kompromat, che lungo centinaia di pagina documenta in modo a me parso inoppugnabile il fatto che Donald Trump è entrato nel mirino dell’allora KGB sovietico sin dagli anni Ottanta dello scorso secolo, quando era ancora un imprenditore relativamente giovane, ma già famoso.

L’attenzione sovietica si è concentrata su di lui quando ha sposato Ivana, una modella cecoslovacca. Da allora, i servizi cechi e quelli russi hanno montato un’operazione diretta a conquistarselo, non come spia o agente diretto, ma come “utile idiota” nella costante opera di corrosione della democrazia americana e delle alleanze occidentali. Lo hanno fatto sfruttando il suo infinito narcisismo, la sua depravata fame sessuale, ma anche la sua avidità di denaro, unita al bisogno costante di tappare i buchi aperti dalle sue spericolate operazioni immobiliari. Dal KGB l’operazione è passata ai nuovi Servizi segreti russi sotto Putin, che l’ha proseguita almeno fino al 2016. È stato un investimento a lungo termine che ha dato buoni frutti quando Trump ha cominciato ad adottare posizioni critiche della politica estera di Washington e della NATO – affittando pagine intere dei quotidiani maggiori per esprimerle pubblicamente – e si è dimostrato pagante quando finalmente questo ignobile personaggio è diventato Presidente degli Stati Uniti (non poco aiutato dagli stessi russi, come è stato accertato oltre ogni ragionevole dubbio dai Servizi di intelligence americani).

Tutti sanno che, durante la sua campagna elettorale, Trump ha più volte elogiato Putin e vilipeso gli alleati europei e, nel corso del suo mandato, ha cercato come poteva di indebolire l’Alleanza e minacciato di ritirare gli USA dall’Estremo Oriente. Se non ci è riuscito al 100% è perché è stato limitato dall’establishment militare e di intelligence di Washington e dalla stessa maggioranza del suo partito, visceralmente ostili alla Russia, ma atti di servilismo e concessioni verso Putin non sono mancati, a cominciare dal pratico ritiro dal Medio Oriente. Non so se alla fine Putin sia da considerarsi soddisfatto o deluso. Forse – nel suo totale disprezzo per il funzionamento di una democrazia occidentale – si aspettava una rivoluzione completa della politica USA. Però, alla fine, le porcherie di Trump nelle ultime settimane di mandato hanno avuto almeno il risultato, benvenuto a Mosca, di indebolire la democrazia americana e mostrarne la vulnerabilità.

Quanto ha scritto Unger è stato punto per punto confermato in una lunga intervista al “Guardian” da un ex-agente KGB, Yuri Shvets, che ora vive negli Stati Uniti, e che ha aggiunto dettagli e informazioni di prima mano.

In sostanza, l’uomo che si è fatto eleggere strillando “America first” e “Make America Great Again” era anche l’uomo pronto a svendere i veri interessi del suo paese per il proprio profitto, finanziario o politico.

Ci sono stati in passato altri Presidenti di destra discutibili, come Nixon o Gorge W. Bush, ma erano comunque al fondo dei patrioti che non avrebbero mai subordinato gli interessi del loro Paese a quelli propri (e comunque, uno di loro, Nixon, ha pagato crudelmente i suoi peccati, con le dimissioni e l’ostracismo). Trump è di una razza completamente diversa, un demagogo populista senza fede né legge, abituato per decenni a sfuggire alle conseguenze dei suoi atti.

Anche ora, dopo l’obbrobrio del 6 gennaio, rischia di uscire relativamente intatto, perché è chiaro che almeno 45 senatori repubblicani non voteranno l’impeachment. La Giustizia potrebbe perseguirlo, ma dubito che lo farà in modo efficace, date le arcane complicazioni, la lentezza, e l’esagerato garantismo del sistema giudiziario americano.  E sarà un enorme errore, perché solo una chiara e definitiva condanna, con l’interdizione ai pubblici uffici, potrebbe forse metterlo fuori gioco e animare quella parte del suo partito che cerca di opporsi al suo ritorno.

Ma almeno, le rivelazioni di Unger e di Shvets dovrebbero sollevare uno scandalo tale che l’opinione pubblica di un Paese che nel fondo resta fortemente patriottico comprenda che il presunto uomo della grandezza nazionale è in realtà quello che in spagnolo si chiama “un vende-patria”.

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