La Dichiarazione di Roma

Confesso di aver provato una certa emozione vedendo la manifestazione per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma.  Nel ’57 c’ero anch’io, avevo 22 anni, mio padre, Senatore della Repubblica, partecipò attivamente alla procedura di ratifica di quei trattati, come nel 1949 aveva partecipato alla ratifica di quello di Washington, fondatore della NATO. Nel 1958, nell’intervista orale che si usava fare prima del concorso diplomatico, mi fu chiesto quali, secondo me, dovevano essere le grandi direttrici della politica internazionale dell’Italia. Risposi, senza esitare: la NATO e la Comunità Europea. Sono passati sessant’anni e continuo a pensare la stessa cosa.

Per un Paese delle dimensioni e delle caratteristiche  dell’Italia, non c’è spazio nel difficile mondo attuale al di fuori di solide e ampie alleanze occidentali. Ma la storia dell’integrazione europea, questa idea luminosa nata dal cervello di  Spinelli e Rossi, ma attuata da Jean Monnet e da statisti del calibro di Adenauer, Schuman, De Gasperi, Spaak, non ha avuto sempre vita facile o incontrastata e oggi attraversa un periodo dei più turbolenti, per il rinascere di spinte nazionaliste, insofferenti di ogni controllo esterno e tese a farci regredire a uno stato addirittura anteriore alla Seconda Guerra Mondiale. Non penso tanto al caso Brexit (la  Gran Bretagna è stata sempre marginale rispetto all’ideale europeo, più spesso un ostacolo che un contributo al suo progresso) quanto a quello che potrebbe accadere in Francia e in Italia. Perciò, vedere 27 Capi di Stato e di Governo solennemente riuniti per celebrare il sessantesimo e riconfermare la loro volontà di andare avanti, ha costituito uno spettacolo confortante. Che squallore, che meschinità, al contrario, le manifestazioni e i sit-in dei nemici dell’Europa! Chissà se, mutatis mutandis, un secolo e mezzo fa la stessa gente non avrebbe manifestato contro l’unificazione d’Italia.

La Dichiarazione adottata nell’occasione è, nel complesso, adeguata: sobria e solenne nella giusta misura, chiara nelle intenzioni. I quattro punti indicati come obiettivi da perseguire (sicurezza delle frontiere esterne e politica di immigrazione; prosperità sostenibile, crescita e occupazione; progresso sociale e lotta alla disoccupazione; protagonismo sulla scena internazionale) sono ovviamente tutti da condividere. Giusto è anche il richiamo alla sussidiarietà, che in sostanza vuol dire che l’Unione non deve immischiarsi in problemi che vanno affrontati al livello nazionale o locale. È il solo argine serio alla tendenza di Bruxelles di estendere continuamente le proprie competenze, che è tra le origini di parte del malcontento popolare. Saggio anche l’aver previsto la possibilità di differenti “intensità” d’integrazione. Qualcuno avrebbe voluto che si tornasse a parlare di Europa a due velocità, ma sarebbe stato sbagliato. L’importante è aver riconosciuto che alcuni Paesi membri possono andare più avanti di altri nelle misure d’integrazione, ma nel quadro di un’Unione “indivisa e indivisibile”.

Naturalmente, si tratta di una dichiarazione di intenzioni, per quanto impegnativa e solenne, ma la questione è vedere come queste saranno realizzate nei fatti nei prossimi dieci anni che l’UE si è data come orizzonte temporale. Cerchiamo di non essere scettici, ma restiamo prudenti.

A questo riguardo, non condivido del tutto il richiamo, fatto anche dal Presidente Mattarella, della necessità di “rivedere i Trattati” e di una nuova Costituzione. Rifare i Trattati è un procedimento complesso e pericoloso, occorre la ratifica di 27 Paesi, per lo più nei rispettivi Parlamenti, in alcuni casi per referendum popolare e conosciamo bene i rischi. Una Costituzione fu proposta e fallì. Io credo che dobbiamo mettere da parte per ora qualche sogno di “fuga in avanti”, che mi sembra irrealista e controproducente nella temperie europea attuale. Concentriamoci invece su quello che il buon senso e la Dichiarazione indicano: andare avanti nei progetti di integrazione bancaria, adottare una politica comune di sicurezza esterna e di immigrazione, dare impulso allo sviluppo economico e sociale. Non  dimenticando mai che l’Europa vive e cresce se non appartiene ai burocrati, ma ai cittadini. Guarda un po’: l’ha detto anche Virginia Raggi, poverina, tenendosi in petto quell’attacco feroce all’idea dell’Europa che alcuni (i soliti approssimativi) si aspettavano.

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