La Tunisia e la lotta agli spiriti del male jihadisti

Il terrorista che ha ucciso a Berlino era tunisino. Il Paese è il primo esportatore di combattenti in Siria e Irak. Dopo l’attentato di Nizza, perpetrato da un franco-tunisino, la strage di Berlino è stata opera di un tunisino. Se la Tunisia non detiene il monopolio dei combattenti jihadisti, è  comunque il primo Paese straniero (senza contare Siria e Irak) a fornire manodopera a Daech e ad Al Qaeda. Si parla di 500.000 persone. E se Daech ha sicuramente subito forti perdite in Irak e Libia (Sirte è stata liberata dopo sette mesi di combattimenti) non è di certo stata eliminata per quanto riguarda la nostra sicurezza, anzi.

Dal 2011, le forze dell’ordine tunisine (esercito, guardia nazionale, polizia) hanno pagato un pesante tributo nella lotta contro il terrorismo. Più di un centinaio di morti e centinaia di feriti. Nidaa Tounes, il Partito del Presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, aveva denunciato in campagna elettorale il lassismo dei suoi predecessori, primo fra tutti il Partito Ennahda. Nel 2015 però, Nidaa Tounes si è alleato a Ennahda per governare il Paese e quello fu un anno di sangue per la Tunisia con gli attentati del Bardo, di Sousse e Tunisi. Il turismo, parte fondamentale dell’economia nazionale, si è quasi completamente fermato. Il 7 Marzo 2016, la città di Ben Guerdane (sud della Tunisia, a 20 chilometri dalla frontiera libica) veniva attaccata all’alba da un commando formato da una sessantina di jihadisti.  Nel centro del Paese, soprattutto sui monti che circondano Kasserine, si sono registrati attentati a intervalli regolari. Daech ha giustiziato un militare dentro casa sua all’inizio di Novembre. Sul fronte interno la situazione rimane tesa. Sembra che siano 700 gli jihadisti tornati a casa. Una parte di loro è stata arrestata, l’altra posta sotto sorveglianza. Il dibattito infiamma la stampa, la politica e i social media tunisini: cosa fare dei “daechiani” rientrati tornati in Patria dalla Siria e dall’Irak? Bisogna creare una Guantanamo tunisina? Per ora la questione sembra prematura. Il problema vero nascerebbe solo se Daech e compari sparissero dal Mondo. E questo non sembra essere il caso perché  esistono ancora molte, troppe, zone d’azione. La Tunisia deve semplicemente affrontare la “sua” realtà.

Le autorità, così come la popolazione, sono sottoposte a una vera sfida sociale. Rispondere affrontando la questione sicurezza è sicuramente parte della risposta. Ma la Tunisia non potrà astenersi dal riflettere sul perché. Perché un Paese di meno di 11 milioni di abitanti genera tante vocazioni jihadiste? Tre elementi si sovrappongono nel tentare di dare una risposta a questa difficile domanda: l’eredità lasciata dalla dittatura di Ben Ali, la marginalizzazione economica e sociale della Tunisia più profonda, il rifiuto di accettare la realtà. Dopo la diffusione di un reportage girato nei pressi della moschea radicalizzata situata nel governatorato di Kairouan (prima città santa del Maghreb e vivaio di jihadisti), terra di origine dell’attentatore di Berlino Anis Amri, ci furono reazioni  molto violente. Per molti era tutto falso: le prediche inneggianti alla jihad in presenza di bambini di 5/6 anni, le potenzialità di quel luogo di reclutamento, era tutto frutto di fantasmi e verità distorte. Un rifiuto della realtà che impedisce di mettere in atto una strategia efficace contro i predicatori di odio e contro gli adolescenti tentati dai loro propositi. Lo stato di abbandono dell’altra Tunisia, quella dell’interno, con il suo elevatissimo tasso di disoccupazione (più del 30%), è l’humus perfetto per i reclutatori di Daech e di tutte le derivazioni  del Jihad. Per mancanza di sviluppo tangibile, non essendo le promesse politiche seguite da effetti reali, queste regioni sono una preda molto appetibile. Ultimo elemento: l’assenza di una politica di deradicalizzazione , vedi di individuazione delle vittime più giovani (meno di 12 anni).

Un ex  Ministro per gli Affari religiosi, attuale mufti delle Repubblica, riteneva che per lottare contro questa “peste morale”, bisognava dire “ai giovani che era illegale”. Un po’ poco e molto superficiale. Alle porte del deserto, così come ai margini di Tunisi, molti giovani esprimono il loro smarrimento. Qualcuno arriva ad affermare: “con la dittatura, non avevamo nulla; con la democrazia, è lo stesso. Allora perché non provare Daech?”. Così i 23 anni di Ben Ali che ha fatto arrestare, torturare, umiliare tutto ciò che poteva lontanamente somigliare a un islamista, hanno portato ad un risultato inverso all’obiettivo desiderato. La Tunisia del 2016 non può accontentarsi di dare la colpa agli altri Paesi, Libia in primis. Deve trovare il modo di riconciliarsi con i suoi giovani. Il suo futuro. E ha tutte le potenzialità per farlo. Non lasciamola sola.

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