Semestre italiano UE, un’occasione persa

[NdR – Riceviamo e pubblichiamo, in un’ottica di pluralità di opinioni, questo intervento di Alessandro Morselli, docente di Economia internazionale all’Università “La Sapienza” di Roma]

La Commissione Juncker ha dimostrato di non cambiare strada. Al di là dei proclami di voler incidere sull’aumento di competitività in Europa, nulla è stato fatto sinora. I problemi delle finanze pubbliche non sono stati affrontati e neppure quelli riguardanti la regolamentazione della finanza privata. Si continuano a seguire i dettami mercantilisti, vale a dire tagli alla spesa pubblica, competizione senza regole e gara a chi esporta di più. L’idea è che i deficit esterni dei paesi periferici sono insostenibili e pertanto debbano essere corretti. Quindi, l’incremento di competitività, nei confronti dei paese del Nord Europa,  passa attraverso la riduzione degli squilibri commerciali, che in assenza di aumenti di produttività, necessita di una riduzione di tutti i prezzi e soprattutto i salari del 20% circa. In teoria si pensa che è possibile ridurre prezzi e salari nella stessa proporzione, così la ripartizione dei redditi fra i gruppi sociali rimarrebbe invariata e la domanda relativa dei differenti agenti economici non cambierebbe. Ciò dovrebbe accadere nell’ottica liberista, mentre nel mondo reale, regolato da rapporti di forza e dalle strategie dei gruppi sociali, la riduzione dei prezzi e dei salari genera sempre dei fenomeni di redistribuzione e di sostituzione. I gruppi dominanti riducono i loro redditi meno degli altri, con un effetto redistributivo a proprio favore. Così come la guerra tra monete non porta effetti reali, anche le svalutazioni interne di prezzi e salari non portano effetti benefici.

Allora è necessario correggere il tiro e orientarsi verso la lotta alla contraffazione e alle imitazioni dei prodotti, per avere guadagni di competitività. Le imprese italiani e francesi sono le più colpite, tenendo in considerazione settori come: meccanica, rubinetteria, piastrelle, pelletteria, tessile e abbigliamento. Insomma tutta la manifattura risulta penalizzata sui mercati internazionali da una concorrenza sleale e selvaggia che le fa perdere competitività e quote.

Quindi, il Consiglio dei ministri dell’Unione europea doveva agire sulla obbligatorietà di contrassegnare, attraverso l’etichetta, l’indicazione della provenienza dei prodotti (“Made in…”). Tale questione si trascina da una decina d’anni, poiché la UE non si è data finora un apposito regolamento. Eppure sembrava che in occasione del Semestre italiano di presidenza della UE fosse arrivata la volta buona, ma adesso il nostro Semestre di turno è terminato senza che si sia registrata alcuna novità in proposito o perlomeno l’ipotesi di un accordo.

Si auspica che il Semestre lettone si possa occupare di questo problema, vero intralcio al contrasto della concorrenza sleale, per adesso rimare soltanto una forte delusione, pensando al semestre italiano come l’ennesima occasione sprecata.

©Futuro Europa®

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