Agrobusiness italiano in ascesa

Agrifood Monitor à la prima piattaforma nazionale sull’agrobusiness, l’alimentare è un settore fondamentale per l’economia italiana ed europea ed i vari trattati internazionali, ultimo il CETA, ne dimostrano l’importanza e la vitalità. In questo contesto a fine settembre si è svolto, nella splendida cornice di Palazzo Varignana vicino a Bologna, l’edizione 2017 del Forum Agrifood Monitor. L’obiettivo del Convegno, nato da una joint CRIF e NOMISMA [che ringraziamo per aver invitato il nostro giornale – NdR], è fare il punto sul mercato e prevederne gli scenari futuri di crescita in un ambiente competitivo come quello del Food&Beverage italiano tra Free trade agreement e minacce di nuovi dazi.

Il  Nord America, USA e Canada, rappresentano per l’Italia il secondo mercato dopo la Germania, con un export che nel 2016 ha superato i 4,6 miliardi di euro con un aumento del 7% nei primi 7 mesi dell’anno in corso. La tipicità dei prodotti italiani, vino, olio d’oliva, formaggi, pasta, rappresentano il 65% del volume totale dell’export e vantano un saldo positivo nella bilancia commerciale con il nord-america per 3,2 miliardi di euro. I punti focali di destinazione sono le due coste, west coast e east coast fanno la parte del leone nell’acquisto del food& beverage italiano, mentre tutta la zona centrale risulta deficitaria sotto questo aspetto, il che lascia ampi spazi di miglioramento nel posizionamento di mercato.

Le differenze tra i consumatori delle coste e del mid-west si evidenzia anche nei criteri di scelta, il prezzo è il primo fattore per il 20% dei consumatori sulle coste, ma si alza al 40% nelle zone centrali del continente. Ma sul fattore ‘reputazione’ l’Italia può vantare un eccellente primo posto, questo porta i consumatori nord-americani a conoscere i nostri brand ed a essere disposti a pagare di più per usufruire della maggiore qualità dei prodotti italiani. La survey ha permesso al responsabile di Area Nomisma Denis Pantini, di identificare i profili dei consumatori “Nel caso degli USA, si tratta di un consumatore con reddito familiare alto, che vive a New York, di età compresa tra 36 e 51 anni, con alto livello di istruzione e che segue corsi e programmi TV di cucina. I canadesi hanno sempre un reddito familiare alto, età mediamente più elevata (tra 52 e 65 anni), usano internet per informarsi ed anche loro seguono programmi TV di cucina.”.

Altri punti sono da tenere in alta considerazione, ad esempio la rischiosità commerciale di USA e Canada è sensibilmente più bassa di quella italiana, risultando sotto la media nel 55% delle imprese USA all’ingrosso ed arrivando al 74% nel dettaglio. Maggiore solidità finanziaria delle imprese del nord-america, ma forse anche un retroterra culturale che affligge il mondo italiano e porta a ritardare o posticipare i pagamenti, una disciplina legale che protegge poco i creditori in questo campo, il dimensionamento delle aziende italiane unito alla crisi del credito, sono tutti fattori che vanno ad incidere sul sistema paese.

Ulteriore riconosciuta particolarità è l’elevata frammentazione dei produttori italiani, se il settore Food & Beverage conta negli Stati Uniti 39.000 imprese (di cui 9.747 con oltre 10 dipendenti) e 7.600 in Canada. L’Italia arriva a 65.000 aziende, di cui 6.558 con più di 10 dipendenti, il 78,1% conta da 1 a 5 dipendenti, e solamente l’1,5% ha una forza lavoro di oltre 50 addetti; le piccole dimensioni non aiutano sicuramente nella competizione sul mercato globale.  I dati evidenziati hanno ribadito come, non potendo competere sul fronte dei costi, l’Italia possa farsi valere con forza con i prodotti di qualità ed i suoi marchi, e proprio su questo versante ora è entrato in vigore il CETA. Il trattato con il Canada è, come in tutti i trattati, un compromesso tra le diverse esigenze, ma vanta numerosi punti a favore dell’Italia. E’ doveroso ricordare la diversa disciplina tra Europa ed America riguardo i marchi, oltre oceano non esistono i concetti di denominazione di origine, in Canada il ‘Prosciutto di Parma’ è registrato da un’azienda canadese che ne detiene i diritti di marchio e le cause intentate dal Consorzio del Prosciutto di Parma in tale ambito non hanno avuto esito positivo. Con il CETA si introduce invece proprio questa specificità, non sono state approvate tutte le denominazioni richieste, ma il 90% che rappresentano comunque la stragrande maggioranza dei prodotti comunitari a denominazione di origine e che ora godranno della tutela fornita dal trattato in questione.

Per concludere, riportiamo gli ultimissimi dati appena diffusi in materia da Nomisma Agrifood Monitor, che riportano un export agroalimentare italiano volto a superare i 40 miliardi di euro, spinto dalla crescita nelle vendite oltre frontiera di vino, salumi e formaggi con aumenti stimati compresi tra + 7% (vino) e + 9% (formaggi). Un risultato rilevante per una filiera altrettanto importante che dall’agricoltura alla ristorazione vale il 9% del PIL italiano (con più di 130 miliardi di euro di valore aggiunto), coinvolge il 13% degli occupati totali e concentra un quarto di tutte le imprese presenti in Italia. Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma, ha dichiarato: “L’aumento dell’export unito ad un consolidamento della ripresa dei consumi alimentari sul mercato nazionale (+1,1% le vendite alimentari nei primi 9 mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016) prefigurano un 2017 all’insegna della crescita economica per le imprese della filiera agroalimentare. Dallo scoppio della recessione globale (2008) ad oggi il valore aggiunto della filiera agroalimentare italiana è cresciuto del 16%, contro un calo di oltre l’1% registrato dal settore manifatturiero e un recupero del 2% del totale economia, avvenuto in maniera significativa solamente a partire dal 2015”.

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