
Una settimana, due svolte
In una settimana due fatti rilevanti sono accaduti, tali da influire nei prossimi sviluppi della politica interna americana come anche dei rapporti con Ucraina e Russia.
Una settimana fa, con un’operazione particolarmente ardita, gli Ucraini sono riusciti a penetrare in regioni remote anche della Siberia e a danneggiare buona parte della flotta di bombardieri russi capaci di sganciare bombe nucleari e quindi hanno compromesso il delicato equilibrio militare-strategico con gli Stati Uniti. Un equilibrio che è sancito negli accordi bilaterali sul controllo degli arsenali nucleari e che è stato fissato dopo un’attenta valutazione della capacità di dissuasione che ciascuna delle due parti riesce a esercitare sull’altra. Molto semplicemente, quindi, l’Ucraina ha incrinato questo equilibrio concretizzando quella minaccia agli interessi vitali russi che secondo la dottrina di Mosca legittimerebbe l’uso “difensivo” dell’arma nucleare.
Secondo alcuni esperti l’attacco condotto dai droni ucraini contro le basi dell’aviazione russa ha richiesto l’appoggio quantomeno dell’intelligence di un paese NATO (qualcuno ipotizza il Regno Unito) il risultato comunque allinea di fatto Kiev ancora di più nei ranghi dell’Alleanza Atlantica esacerbando così i sentimenti dei Russi che vogliono l’Ucraina annichilita e asservita a Mosca. Se quindi abbiamo assistito negli ultimi giorni una ripresa massiccia degli attacchi condotti sul territorio ucraino, non ci possiamo meravigliare, come potremmo pensare che questo sia semplicemente il prologo a un’azione di più ampia scala che Putin potrebbe condurre dopo avere raggiunto un’intesa con i suoi più stretti alleati, per primo Xi Jinping.
Proprio nel momento in cui lo scontro russo-ucraino conosce un salto di livello, il Presidente Trump comincia ad affrontare il primo concreto sfaldamento all’interno della sua cerchia più intima: di chi lo ha sostenuto elettoralmente e che con cui ha condiviso i primi passi del “rinnovamento” nella politica interna, estera, fiscale e commerciale americana. Musk già un anno fa aveva dato un aperto sostegno alla candidatura del Presidente arrivando a finanziare con oltre 70 milioni di dollari la campagna elettorale e sostenendolo su X. Fu il segno più visibile di un cambio del paradigma delle relazioni tra potere politico e mega-imprenditoria americana.
Simbolicamente ciò è apparso in occasione dell’investitura in cui Trump era circondato, in prima fila, dai grandi imprenditori della new economy: oltre a Musk, Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Tim Cook (Apple), Sundar Pichai (Google), Shou Zi Chew (Tik Tok). È difficile dire quanto loro fossero convinti in quel momento che valesse la pena “saltare sul carro del vincitore”; è invece molto probabile che ora e dopo gli stracci che sono volati tra Donald e Elon in questi giorni, l’imprenditoria americana cominci seriamente a diffidare del Presidente. Prima di tutto la politica dei dazi li sta fortemente minacciando per il rischio di ritorsioni e poi perché nel mondo degli affari l’inaffidabilità è inammissibile.
Il tutto è preoccupante per gli Americani e per il Mondo intero. Da settant’anni il Presidente americano deve avere sempre con sé i dispositivi per dare l’ordine per l’uso della bomba atomica. Se è stato soprannominato “Taco” (Trump always chickens out, Trump fa sempre marcia indietro) bisogna anche capire che è difficile pensare che ciò valga nel caso di un confronto nucleare.
Seguendo l’Europa – esemplare è stata la flemma del cancelliere tedesco Merz nello Studio ovale – sarebbe meglio sia per l’America che per tutto il mondo che a Washington, Mosca e Kiev tutti si dessero una calmata.
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