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Attivismo o squadrismo?

C’è stato un tempo in cui l’attivismo era sinonimo di coraggio, visione e sacrificio. Gandhi affrontava l’Impero Britannico con la forza della non-violenza, scegliendo la fame e la prigione piuttosto che intralciare la vita dei suoi concittadini. Nelson Mandela lottava contro l’apartheid con una strategia che sapeva quando usare le parole e quando – dopo anni di carcere – sedersi a un tavolo e trattare. Non avrebbero mai bloccato le strade di chi andava a lavorare, non avrebbero mai pensato che il diritto di uno valesse più di quello di tutti gli altri. Non avrebbero interrotto un dibattito altrui al grido di “Vogliamo solo leggere ‘pacificamente’ un comunicato!”. Poche idee, ma in compenso confuse.

Oggi, l’attivismo è diventato una parodia di sé stesso. Non più visione, ma esibizionismo. Non più strategia, ma isteria. I nuovi “rivoluzionari” non scrivono libri, non progettano piani, non creano alternative. Si incollano all’asfalto, bloccano i treni, gettano vernice sui monumenti. Convinti che infastidire la casalinga che va a fare la spesa, il lavoratore che prende il treno o il medico che va a salvare una vita sia una grande impresa. Ma anche danneggiare un bancomat o un McDonald’s non è certo un’idea felice: esistono le assicurazioni che gravano sui risparmiatori/consumatori.

Ma chi sono davvero? Non si tratta di scienziati, pensatori, strateghi. Sono una generazione confusa, “informata” sui social, incapace di pensare in prospettiva e convinta che chi grida più forte abbia ragione. Vogliono cambiare il mondo, ma il massimo che riescono a fare è bloccare un’autostrada, salvo poi scoprire che tra gli automobilisti bloccati c’era un’ambulanza con un paziente grave a bordo o qualcuno che per loro potrebbe perdere il lavoro.

E qui c’è il vero cortocircuito: chi blocca le strade è, per definizione, uno squadrista. Non porta avanti un’idea, ma impone con la forza il proprio volere. Se un’idea ha valore, convince. Se un’idea è debole, si impone con la violenza.

I grandi attivisti del passato studiavano. Oggi invece il pensiero è stato sostituito dalla performance. Il miglior esempio? I giovani che inveiscono contro il capitalismo mentre trasmettono la loro indignazione con un iPhone pagato da papà. Manifestano contro le emissioni inquinanti, poi vanno a casa in Uber. Protestano per la sostenibilità, ma comprano magliette in poliestere fatte in Asia da lavoratori sottopagati. E quando li si fa notare? Gridano “fascista” e chiudono il discorso. Perché il loro attivismo non cerca il dialogo, cerca il nemico. E chi non è con loro, è automaticamente contro. È anche un effetto di internet e dei social: poco tempo per leggere, 240 caratteri per esprimersi, uno slogan urlato e, per loro, ecco fatto.

Proviamo a immaginare Gandhi che incolla le mani sulla strada per impedire il passaggio degli autobus in India. O Mandela che blocca i treni in Sudafrica e insulta chi cerca di passare. Sarebbero stati due imbecilli qualunque. Invece hanno fatto la storia, perché hanno capito che la lotta vera è fatta di intelligenza, strategia e sacrificio personale, non di ostacolare chi ha una vita da vivere. E se parliamo di vero sacrificio di attivisti menzioniamo Jan Palach. Chissà se ai novelli contestatori questo nome dice qualcosa.

Queste riflessioni non sono tutte dell’autore, ma nascono rileggendo il pensiero di Thomas Sowell, uno che avrebbe avuto ottimi motivi per scendere in piazza. Nato nel profondo Sud degli Stati Uniti e cresciuto a Harlem, ha vissuto sulla sua pelle le discriminazioni che oggi vengono urlate da chi non ha mai visto un quartiere povero in vita sua. Eppure, non ha scelto la strada dell’attivismo becero. Ha studiato, analizzato ed oggi le sue posizioni – guarda caso non di sinistra – si basano sulla realtà e non sulla retorica. Se oggi qualcuno volesse davvero cambiare il mondo, dovrebbe studiare, costruire e convincere con la logica e l’esempio. Non bloccare il traffico e aspettare i like su Instagram. Ma forse, per questo, ci vuole un’intelligenza che non tutti possono permettersi.

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