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O’Connor, la donna che Reagan scelse

Il 21 settembre 1981, in un’aula gremita di curiosità e perplessità, Sandra Day O’Connor alzò la mano destra e giurò fedeltà alla Costituzione. Era la prima donna a sedere sulla Corte Suprema e, ironia della storia, fu nominata da un presidente repubblicano che aveva conquistato l’establishment conservatore promettendo di ribaltare l’eredità liberal del tribunale. Ronald Reagan aveva annunciato la sua scelta il 7 luglio e formalizzato la nomina il 19 agosto, spiegando che il Paese era maturo per una persona per tutte le stagioni. Il Senato la confermò con un 99 a 0 che oggi sembra appartenere a un’epoca di civiltà perdute, e quattro giorni dopo, appunto il 21 settembre, prese posto fra le toghe nere del collegio.

Chi cercava un alfiere ideologica rimase deluso fin dai primi mesi. O’Connor arrivava dal cuore arido dell’Arizona, cresciuta su un ranch dove l’acqua era più preziosa del tempo, e aveva imparato a diffidare dei dogmi: da Stanford, dove era risultata prima della classe insieme a William Rehnquist, era uscita con offerte di segreteria anziché di studio legale, perché le donne non portano clienti. Non dimenticò mai quell’umiliazione, ma non la trasformò in crociata: preferì costruire una carriera pubblica d’acciaio temperato, diventando la prima donna leader di una camera statale negli Stati Uniti (il Senato dell’Arizona) e poi giudice d’appello. Quando varcò i portoni in marmo di Washington, portava con sé il gusto per il compromesso e l’avversione istintiva per le soluzioni a taglio netto.

Nel corso dei ventiquattro anni in Corte, il suo voto divenne il fulcro attorno a cui ruotava un collegio diviso in due blocchi speculari. È lei che, nel 1992, salva Roe v. Wade ridefinendo il diritto all’aborto attraverso il famoso standard dell’undue burden, il peso eccessivo che uno Stato non può imporre alle donne senza violarne la libertà costituzionale. Nel 2003 firma la sentenza Grutter v. Bollinger, offrendo un lasciapassare condizionato alle politiche di affirmative action: le reputa legittime ma ne fissa la data di scadenza simbolica a venticinque anni, segno di un ottimismo sul progresso sociale che il tempo chissà potrebbe smentire. Tre anni prima aveva concorso alla decisione più controversa della sua carriera, Bush v. Gore, quell’epilogo lampo del riconteggio in Florida che consegnò la Casa Bianca a George W. Bush e incrinò l’aura di neutralità della Corte in materia elettorale.

Eppure, chi misura il femminismo solo a decibel rischia di non cogliere la trama sottile del suo impatto. O’Connor non marciò per le pari opportunità né adottò la retorica dei grandi slogan, ma il suo voto fu determinante quando la Corte impose alla Virginia Military Institute l’apertura alle cadette, smontando l’idea che la disciplina militare fosse privilegio esclusivo dei maschi. Più ancora contarono i gesti quotidiani: la semplice presenza di una donna fra i nove giudici costrinse il personale della Corte a rivedere protocolli, spogliatoi, cerimoniali, senza mai doverlo rivendicare a gran voce. O’Connor preferiva dimostrare che si può arrivare prima senza farlo pesare, frase che amava ripetere alle giovani avvocate in cerca di un modello.

Quando lasciò il seggio nel gennaio 2006 per assistere il marito John, malato di Alzheimer, pochi dubitavano della sua centralità nel recente decennio giurisprudenziale. Ma lei, invece di ritirarsi in silenzio, decise che la democrazia aveva un altro bisogno urgente: cittadini capaci di comprenderla. Nacque così iCivics, piattaforma di giochi e materiali didattici che oggi raggiunge milioni di studenti e insegnanti in tutti gli Stati Uniti, con l’obiettivo di trasformare la lezione di educazione civica in un’avventura e non in una noia da manuale. Era il suo modo di dire che la legittimità delle istituzioni non si difende a colpi di tweet, ma con la pazienza di chi forma coscienze.

Si è spenta il 1° dicembre 2023, a novantatré anni, dopo aver vissuto la stessa malattia che le aveva rubato il compagno di una vita. Sulla sua lapide ideale, più che l’etichetta di pioniera, forse merita la definizione che diede di sé, parlando all’ultimo pubblico radioso in Arizona: non ho mai preteso di cambiare la storia; volevo impedirle di incepparsi. Fu giudice delle soglie, come quei ponti che uniscono senza brillare di luce propria. E ancora oggi, nel tribunale dove i nuovi equilibri pendono verso letture sempre più rigide della Carta, l’assenza di quella voce centrista ricorda che la giustizia non vive di applausi ma di fragile geometria: basta un voto in più o in meno per spostare la bilancia dei diritti di milioni di persone.

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