La ricerca scientifica dopo la Brexit

All’indomani del Referendum sulla Brexit molti di noi erano ancora speranzosi che il Regno Unito sarebbe rimasto nell’Unione Europea, ma come sappiamo, i risultati non hanno dato ragione a queste speranze. L’effetto Brexit non porta conseguenze solo sui delicati equilibri dei sistemi economici e commerciali tra i Paesi dell’Unione, ma, anche, sul sistema educativo, con ricadute che sono pesanti per la stessa Inghilterra. Il risultato di tutto questo è che ora l’Europa non può più contare su una parte fondamentale della sua storia, economia, cultura e che la Gran Bretagna, uscendo dall’Unione, rischia di perdere la sua tradizione secolare di promozione della cultura scientifica.

Oltre a questo dobbiamo sottolineare, per quanto questo possa apparire evidente, che la scienza moderna si basa su collaborazioni e partnership internazionali e la libera circolazione “senza ostacoli” dei membri della comunità scientifica, innanzitutto “in casa”, a livello europeo, rappresentava e rappresenta uno dei punti di forza principali della ricerca negli Stati membri. E questo è, fin dall’alba dei tempi, l’essenza stessa della “Ricerca scientifica”. La condivisione, il dialogo, la collaborazione, il confronto rappresentano il punto di partenza e di arrivo di ogni ricerca scientifica, il cui fine e lo studio e l’interpretazione di qualunque fatto, evento o comportamento relativo a qualsiasi ambito della conoscenza ed esperienza umana, servendosi di metodologie intersoggettive e condivise

Il Regno Unito è, da sempre, un polo di eccellenza per la ricerca e da sempre ha attratto le migliori intelligenze scientifiche da ogni parte del mondo: i dati rilevano che almeno il 15% dei ricercatori del Regno Unito siano cittadini di altri Paesi europei e l’uscita porterà, necessitatamente, a una perdita globale e non solo britannica di avanzamento delle conoscenze.

La Royal Scociety è molto preoccupata che possa venire meno il carattere internazionale della ricerca: “…uno dei punti di forza maggiori della ricerca britannica – come mete in rilievo Venkatraman Ramakrishnan, Presidente della Royal Society, biochimico e biofisico di origine indiana – è sempre stata la sua natura internazionale e abbiamo bisogno di continuare ad accogliere ricercatori e studenti che arrivano dall’estero. Qualsiasi insuccesso nel mantenere immutato il libero scambio di persone e idee tra la Gran Bretagna e la Comunità scientifica internazionale, compresa quella europea, potrebbe seriamente danneggiare la scienza britannica e non solo”.

Oltre a questo è possibile che possa registrarsi, con Brexit, un rallentamento della crescita scientifica britannica. La ricerca, infatti, ha bisogno di fondi. Il Regno Unito contribuisce alla Comunità Europea, quanto a fondi destinati alla ricerca, in ragione, nel 2014 di un versamento di circa 14 miliardi per l’Inghilterra a fronte dei circa 16 dell’Italia (stiamo parlando di esborsi “medi” per i 28 Stati membri) e ha ricevuto come fondi europei alla ricerca per Horizon 2020: 2,172 miliardi (circa il 5% dell’investimento totale inglese nella ricerca), mentre l’Italia ne ha ricevuti solo 1,176 miliardi (sempre il 5% dell’investimento totale della ricerca). Fondi europei, che chiunque si occupi di ricerca, sa quale importanza determinante abbiano per il prosieguo delle indagini scientifiche e lo sviluppo delle conoscenze, tecnologico e della ricerca.

A denunciare la possibilità reale dell’avverarsi di questa eventualità è, ancora una volta, la più antica e prestigiosa istituzione scientifica britannica: la Royal Society. Per Ramakrishnan, “la ricerca, che è il fondamento di un’economia sostenibile, non subisca tagli”. Nel periodo 2007-2015 il Regno Unito è stato il Paese europeo che ha ricevuto finanziamenti per il maggior numero di progetti di ricerca da parte dell’European Research Council (Consiglio Europeo delle Ricerche) e questo a testimonianza non solo del suo ruolo di catalizzatore dell’eccellenza scientifica europea, con molti Atenei inglesi capofila di interi progetti o singoli work packages, ma anche, della validità sostanziale della produzione dei ricercatori dell’Unione che lì convergevano.

E questo avveniva anche perché la Gran Bretagna era l’autrice del 16% circa di produzione scientifica “ad alto impatto” nel mondo, fattore che ha da sempre contribuito a far accogliere favorevolmente da Bruxelles le richieste di sovvenzione. Fino ad oggi il sistema universitario ha ricevuto il 16% dei fondi e il 15% dei ricercatori e professori dall’Unione Europea.

L’avvicinarsi delle elezioni in Germania e in Francia sembra che produrrà l’effetto di allontanare il concretizzarsi di Brexit. Gli appuntamenti elettorali, infatti, sconsiglierebbero decisioni affrettate. Berlino e Parigi pare siano disposti a trattare per l’uscita di Londra dall’Unione Europea che slitterebbe così al 2019, in modo da gestire al meglio le conseguenze non semplici che ne deriverebbero per gli equilibri globali. E, all’idomani dei negoziati previsti, sarà solo allora che inizieremo ad avvertirne concretamente gli effetti.

Uscita della Gran Bretagna che, comunque, si spera che non influenzi, per quest’ultima, la possibilità di conservare relazioni con i restanti Paesi europei. “…molte sfide globali possono essere affrontate solo da Paesi che collaborano tra loro, ed è più facile lavorare insieme quando politiche e regole sono coerenti – mette in evidenza il Presidente della Royal Society – …nel negoziare le future relazioni con l’Europa dobbiamo assicurare che non porremo in atto barriere non necessarie che inibiranno la collaborazione”. E come non potrebbe essere altrimenti dato che più della metà della produzione di articoli scientifici di eccellenza inglesi scaturisce da collaborazioni con scienziati internazionali, la maggior parte di provenienza dell’Unione?

©Futuro Europa®

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