Un ventennio

Gianfranco Fini ha scritto un libro, “Il Ventennio”, di cui ha anticipato vari tratti nell’intervista di domenica scorsa a Lucia Annunziata. Visto che si tratta di un attore non secondario, e a un certo punto decisivo, di quell’era, almeno fino allo strappo del 2010, credo che il libro sia di interessante  lettura per chi vuole meglio capire le vicende del lungo periodo berlusconiano.

A suo tempo, quello strappo fu giudicato un tradimento; c’era, sì, tra Berlusconi e Fini una visibile e crescente  incompatibilità, personale e politica: bisognava però almeno tentare di ricomporla con pazienza, tolleranza, accettazione delle critiche, buona fede e rispetto reciproco, che dalle due  parti mancarono; ciò per consentire la continuità di un  governo che gli italiani avevano portato al potere nel 2008. Fu anche giustamente detto allora  che, per coerenza – consumata la rottura dell’alleanza – Fini  avrebbe dovuto lasciare una Presidenza della Camera ottenuta  in funzione di tale alleanza.  Ora, egli cerca di spiegare compiutamente le ragioni dello strappo. Discutibile o meno la sua decisione di allora, le sue spiegazioni riportano al centro la vera questione che ci si deve porre nel giudicare, con la possibile serenità, il ventennio berlusconiano.  Al di là del degrado morale cui egli non è certo estraneo, si possono criticare alcune delle cose che Berlusconi ha fatto,  riconoscendo che altre sono state giuste e opportune. Ma il nodo sta nelle tante, le troppe cose che egli aveva promesso di fare e non ha fatto, pur avendone sulla carta, e per due volte, i numeri: cioè quella  “rivoluzione liberale” di cui il Paese aveva e ha disperato bisogno e che è sin qui mancata e temo continuerà a mancare a causa delle risse, dei settarismi e della miopia di tanta parte della classe politica. In cambio, assenza di un programma di largo respiro, politiche del giorno per giorno e il progressivo cammino verso l’insolvenza.

Come spiegarlo? Per leggerezza o incompetenza?  Non lo credo: sin dal 1994 Berlusconi aveva fatto una diagnosi esatta dei mali italiani e dei mezzi per uscirne, e un imprenditore del suo livello aveva certamente le capacità indispensabili a riformare  le istituzioni, ridimensionare la  Pubblica Amministrazione, combattere gli interessi corporativi che soffocano la nostra economia e tagliare drasticamente i costi della politica, gli sprechi, financo la corruzione.  E invece è accaduto tutto il contrario. Certo, hanno interferito anche  le crisi mondiali del 2001 e 2008, che hanno limitato l’azione di governo (ma proprio esse rendevano urgenti e indispensabili quelle riforme che altri Paesi hanno saputo adottare nello stesso periodo). La  chiave, tuttavia, credo stia nella spiegazione che adduce Fini: dalla sua discesa in politica, Berlusconi è stato condizionato dall’esigenza (persino comprensibile) di mettersi al riparo dalle inchieste giudiziarie e quindi obbligato a cercare una facile popolarità e pagare l’appoggio parlamentare dei suoi alleati, Lega in testa, sottomettendosi ai loro paralizzanti veti. Comunque si giudichi l’accanimento di una certa Magistratura nei suoi confronti, si tratta di una circostanza obiettiva difficile da smentire.

Com’è evidente in queste settimane, il nodo resta intatto. Evitare la decadenza dal Senato, nuovi processi e un possibile arresto (improbabile ma da non escludersi, data la disinvoltura di certi PM)  è chiaramente il centro delle preoccupazioni del Cavaliere e dei suoi fedelissimi.  Perché altrimenti  i ricatti e le minacce a un governo che pure si ritiene l’unico possibile?

Da questo atteggiamento irresponsabile, cui il Pd risponde per parte sua in modo altrettanto settario, una parte del  PDL mostra per fortuna di volersi smarcare. Ma ai falchi del centro-destra (ormai molto più destra che centro) non sembrano importare le conseguenze della loro linea: nuove elezioni nelle quali non è affatto certo che uscirebbero vincitori (o se ci sarà un vincitore) o magari un governo PD-5 Stelle che sarebbe, esso sì, nefasto. E comunque un rinnovato ciclo di instabilità, con – come minimo – il ritorno a interessi insostenibili sul nostro debito. E le conseguenze le pagheremmo tutti, berlusconiani e no, di tasca nostra.

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