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L’arte di tornare indietro per andare avanti

Una volta a scuola si retrocedeva. Non solo bocciati: esattamente rimandati indietro, nella classe inferiore. Una misura eccezionale, sì, ma non infrequente. Una diagnosi educativa severa ma chiara: non sei pronto, bisogna tornare indietro per imparare davvero.

Oggi, una simile proposta verrebbe accolta con scandalo, come se si volesse infliggere una violenza psicologica irreparabile a un’anima fragile. Eppure, a molti avrebbe fatto bene. A molti farebbe ancora bene. Perché è inutile fingere che promuovere tutti equivalga a educare tutti: non è inclusione, è rinuncia. E un danno.

La scuola italiana, nella sua forma moderna, nasce dalla Riforma Gentile del 1923. Un impianto selettivo, piramidale, pensato per far emergere le élite del sapere e per indirizzare precocemente chi “non era portato” verso l’avviamento professionale. Gentile, uomo del pensiero forte, non aveva timore del conflitto educativo: riteneva la scuola un luogo di elevazione spirituale, non un presidio terapeutico. La retrocessione, pur non espressamente prevista in ogni norma, era una prassi coerente con quell’idea: se l’alunno non tiene il passo, lo si aiuta mettendolo nelle condizioni migliori per ripartire, non trascinandolo per forza dove non sa stare.

A questa visione si sovrappose nel 1939 la “Carta della Scuola” di Giuseppe Bottai, ancora più attenta alla funzione morale e civica dell’istruzione. La selezione restava il principio guida: lo Stato formava cittadini, non clienti. Ma già nel secondo dopoguerra, con la democratizzazione dell’istruzione, il vento cambiò fino all’esplosione di movimenti studenteschi del Sessantotto (che meritano pagine a parte) che hanno confuso il diritto allo studio con quello al pezzo di carta  ad ogni costo.

Poi, lentamente, tra anni Settanta e Novanta, si fece strada l’idea che bocciare fosse inutile, persino dannoso. La valutazione divenne “formativa”, l’insuccesso un tabù. E così arrivarono i giudizi descrittivi, le promozioni di massa, i voti camuffati da lettere.

Con il nuovo millennio, la parabola si è compiuta. Le riforme, da Moratti a Fioroni, da Gelmini a Valditara, hanno modificato moduli e formulari, ma nessuno ha avuto il coraggio di ripristinare un criterio autenticamente selettivo. Soprattutto dopo la pandemia, si è affermato il mantra definitivo: “Nessuno deve restare indietro.”

Frase bellissima. Ma usata, spesso, come alibi per non fermarsi mai a riflettere su chi davvero ha bisogno di tempo, di ascolto, di profondità. Oggi promuovere è l’unica opzione politicamente corretta, mentre retrocedere è considerato una forma di discriminazione. La scuola si è arresa al compromesso: piuttosto che discutere un’insufficienza, meglio arrotondarla a un sei di pietà. Così ci illudiamo di aiutare, quando in realtà stiamo solo posticipando il naufragio.

Il dramma è che questa illusione coinvolge tutti. Gli insegnanti, accettano che si scriva in stampatello perché “il bambino non capisce il corsivo” o “perché non lo leggo” o ad accettare compiti fatti al computer per “non frustrare la sua disortografia”. I genitori, che da alleati educativi si sono trasformati in avvocati d’ufficio, pronti a impugnare ogni nota, ogni giudizio, ogni osservazione.

E i dirigenti, sempre più orientati a evitare conflitti, anche a costo di sacrificare il rigore sull’altare della quiete amministrativa. Tutti sappiamo che portare avanti un ragazzo non preparato danneggia non solo lui, ma anche i compagni. Ma se lo dici, ti accusano di non voler includere. Se proponi un passo indietro, ti dipingono come punitivo. E così si va avanti, per forza d’inerzia, verso una scuola che promuove tutti ma non forma più nessuno. E se non lo fa la scuola pubblica troviamo diplomifici a basso costo, anche fuori Italia, pronti a elargire lauree e titoli, comprese abilitazioni professionali, a chiunque striscia un bamcomat.

I social hanno fatto il resto. In un mondo dove tutto si misura in visibilità, anche la scuola è diventata una vetrina: laboratori, progettini, giornate a tema. Meno si interroga, meglio è. Meno si scrive a mano, meglio è. Meno si sbaglia, meglio è; perché lo sbaglio è diventato intollerabile. E allora il ragazzo fragile, che un tempo sarebbe stato aiutato a ritrovare sé stesso con un percorso lento ma solido, oggi viene promosso lo stesso, per non turbare la sua autostima. Ma così facendo, gli si nega proprio la possibilità di scoprire quanto vale davvero.

Paolo Crepet lo ripete spesso: una società che non sa dire no, che non educa al limite, alla sconfitta, al fallimento, è una società che non prepara nessuno alla vita. Abbiamo costruito un sistema che evita la delusione, ma anche l’autenticità. E intanto generiamo una gioventù ipersensibile ma incapace di reggere la frustrazione, piena di diritti percepiti ma povera di doveri compresi.

Alla fine, ci accontentiamo. Si accontentano i genitori e i ragazzi del sei meno meno. Ci accontentiamo di ragazzi che non leggono ma sono “empatici”, che non scrivono ma “comunicano bene”, che non ascoltano ma “hanno il loro stile”. Ma nessuno ha il coraggio di dire la verità: che promuovere chi non è pronto non è inclusione. È abbandono. Che far finta che tutto vada bene per non turbare è una colossale ipocrisia. E che una scuola che non sa retrocedere quando serve, non è una scuola che avanza, ma una zavorra. Anche per la società.

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