Alcuni fattori critici della democrazia in Italia – 2

La giustizia in una società politica “malata” – L’atteggiamento che oggi si assume di fronte ai problemi dell’amministrazione della giustizia è più frutto di un “sentimento” politico piuttosto che uno stimolo a razionalizzare la funzione del diritto nei confronti del cittadino imputabile di atti ritenuti illegali valutati alla luce delle norme ritenute elementi regolatori del vivere civile. C’è in atto la tendenza a guardare il valore e l’azione della norma giuridica in funzione del soggetto cui va applicata e non nella funzione che essa esercita come elemento regolatore del giudizio.

Si dimentica che il valore del diritto, e conseguentemente dell’azione giudiziaria, è efficace in quanto rappresenta la salvaguardia della convivenza civile e determina la sanzione (amministrativa o penale) in funzione del capo di imputazione cui viene sottoposto a seguito di un’azione ritenuta imputabile. E’ un meccanismo procedurale che non suscita curiosità o reazione scomposta allorché l’imputazione è riferita a un individuo di scarsa notorietà. In questo caso il comportamento della magistratura non viene sottoposto a valutazione di dissenso radicale intriso di vittimismo o di persecuzione giudiziaria, fatta salva la tendenza psicologica dell’imputato a ritenere la legge troppo severa o le decisioni del giudice ispirate ad una severità eccessiva allorché sceglie la sanzione col massimo della pena. Non è un caso che l’interesse dell’opinione pubblica, rispetto al comportamento della giustizia, è pressoché nullo e i mezzi di comunicazione non ritengono degno di attenzione l’evento in gioco.

Quando invece l’imputazione è rivolta a un soggetto-attore della scena pubblica cresce l’interesse e gli elementi in gioco si caricano di significati di forte rilievo e le componenti della scena vengono enfatizzate: l’imputato, nel tentativo di sfuggire alla pena e di salvare la propria immagine, mette in gioco le conseguenze che l’atto giudiziario determinerebbe per la propria vita e con ciò tende inevitabilmente a rovesciare l’ordine di valore esistente tra giudice e imputato e il valore della legge viene determinato più in funzione delle conseguenze sull’imputato e sulla sua esistenza, sull’ambiente di cui è un esponente di spicco, che non in funzione del necessario rigore richiesto al giudice nell’applicare la legge.

Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche che si riversano sull’imputato sottoposto a giudizio si crea un clima di tensione alta che spesso si configura come valutazione negativa dell’azione del giudice, considerata carica di subdola decisione di una volontà indirizzata alla ricerca di rigore e neutralità, quasi indifferenza, nei confronti delle conseguenze che un verdetto severo opera sull’imputato specialmente quando è un personaggio rappresentativo di una comunità sociale. Va comunque ribadito che la giustizia, posta di fronte a due imputati, diversi per ceto sociale e rappresentativi di due distinti ambienti, non può nel riferimento alle leggi e nella sua applicazione assumere diversa determinazione, né può essere influenzata da poteri diversi dall’unico cui deve attenersi: il potere della legge che per essere efficace deve procedere garantito dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la cui funzione è quella di assicurare due principi fondamentali: principio di uguaglianza e principio di legalità.

Il primo può essere riassunto in quel distico che campeggia nelle aule di giustizia “La legge è uguale per tutti” cui possiamo aggiungere “sia che l’imputato è un semplice cittadino e sia che porti il nome di un personaggio influente nella vita sociale”.

Il secondo, il principio di legalità, ci ricorda che può essere soltanto la legge (e chi l’applica) a determinare chi debba essere punito e chi debba andare esente da pena, non può dipendere da una scelta economica o politica.

Il luogo dove si determina la legalità dell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale è nei tribunali e non nelle rappresentazioni teatrali di processi gestiti da anchormen con ospiti che spesso sono lontano dai codici e vicini agli imputati o nelle pagine di giornali dove i processi sono pasto di giornalisti famelici alla ricerca di notizie da offrire in pasto all’opinione pubblica che confonde l’arena della giustizia (i tribunali) con quella dello sport (stadi).

All’opinione pubblica va fornita l’immagine della giustizia come quella di una macchina razionale alla cui funzionalità contribuisce la lunga messa a punto che il legislatore opera per renderla adeguata alle variabili del tempo, e non per relativizzarla ma per renderla più edotta sui nuovi metodi di indagine e sulle forme nuove che il crimine assume. Un processo utile all’operatore giudiziario, il quale non può indirizzare in nessun caso il suo giudicare a favore dell’imputato, ove sussiste una responsabilità evidente nel suo operato.

Il meccanismo strutturale della dimensione culturale chiamata giustizia non consente alcuna deroga all’obbligo di valutare il comportamento del cittadino sospettato di un’azione penalmente perseguibile.

Non si richiede grande cultura giuridica per capire tutto questo. Del resto a ricordarcelo c’è il Titolo IV (La Magistratura) della Costituzione della Repubblica italiana che nell’art. 104 richiama espressamente l’autonomia e indipendenza da ogni altro potere. Inoltre all’art. 111 viene assicurata al cittadino la regolarità del processo attraverso comportamenti del magistrato a favore della formazione della prova pro o contro l’imputato.

Contro coloro che parlano di accanimento giudiziario verso personaggi esposti socialmente e danneggiati nella considerazione degli altri cittadini o di fronte alle istituzioni c’è l’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. In questo senso ogni azione tesa a creare un distinguo ai fini dell’applicazione dell’”immunità” è a rigore opinabile anche se costituzionalmente, in caso di parlamentare, legittima. Una   chiave utile per capire bene il gioco ricorrente di contrasto tra giustizia (magistratura) e politica (politici), che invade il dibattito politico odierno è proprio questo articolo che ci spinge ad avere chiara la necessità di non valutare l’azione della giustizia come dovere di una maggiore apertura verso le ragioni di un politico rispetto ad un cittadino qualunque.

Se nell’aula di un tribunale siedono il Sig. Rossi (cittadino qualunque) e il Sig. Berlusconi (politico di spicco) nessuno potrà sollecitare il collegio giudicante ad un comportamento diseguale.

La struttura dell’azione giudiziaria, così come la Costituzione la designa, è una garanzia per la giustizia e per l’imputato. Del resto il diritto concesso a qualsiasi imputato di richiedere un più approfondito ricorso ad un grado di giudizio superiore rappresenta la volontà della giustizia di pervenire ad un giudizio esaustivo di fronte al quale nessun imputato possa sentirsi danneggiato nella dignità della propria persona anche quando è sua convinzione che il verdetto risulti ingiusto e punitivo.

Nonostante la chiarezza procedurale definita dalla Costituzione e dalle leggi attuative che il Parlamento emana per una maggiore aderenza dell’azione giudiziaria ai tempi storici, l’immagine che della giustizia oggi alimenta l’opinione pubblica è confusa. Si assiste a un crescente atteggiamento di insoddisfazione nei confronti del sistema giudiziario con una magistratura che travalicherebbe il terreno della propria competenza per sconfinare nel limitrofo infido spazio della politica spingendo qualche critico disavveduto a parlare di “giustizia giustizialista”. E ciò in conseguenza di un conflitto ormai permanente grazie alla rete di relazioni sempre più critiche tra la magistratura e il comportamento da parte della classe politica non sempre ispirato alla difesa del bene comune.

La frequenza con cui la magistratura nel rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è sollecitata ad intervenire su fatti penalmente perseguibili, connessi alla vita di politici e istituzioni pubbliche, ha favorito l’immagine di una magistratura superesposta al giudizio del pubblico e fatta bersaglio della classe politica. Questa, chiamata in causa nel sospetto di comportamenti illegali, erge una barriera di difesa in nome di una prerogativa, dal sapore incerto, assunta come strumento di difesa del diritto di esercizio dell’immunità. Un diritto che pone in difficoltà la giustizia allorché il privilegio di cui un cittadino “particolare” gode non le consente di esercitare pienamente in autonomia la sua funzione.

Il disagio in cui la giustizia viene a trovarsi di fronte alla situazione di privilegio di un gruppo di potere porta la magistratura ad agire con maggiore determinazione per evitare che quel privilegio possa creare ombra di comportamento scorretto. Del resto quanto più il contrasto è acuto tanto più è in pericolo il principio fondante di un sistema democratico: la divisione  e l’autonomia dei poteri, creando così un motivo di sicura crisi del sistema democratico. E’ evidente che di tutti i fattori che concorrono alla crisi politica della democrazia italiana il rapporto critico, oggi conflittuale, tra magistratura e politica è uno dei fattori più incisivi. Dietro di esso si collocano il problema della moralità pubblica, la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, il problema di un ordine pubblico incerto, l’autodisconoscimento da parte del cittadino del diritto di essere artefice della designazione del proprio rappresentante in Parlamento, non ultimo l’aumento progressivo dell’astensionismo elettorale.

L’Italia è collocata in una evidente situazione di deficienza di democrazia che alla pressione di una crisi materiale, economica e sociale, nazionale e internazionale, aggiunge fattori culturali e di etica pubblica. Si parla molto di società civile, riponendo in essa la speranza di un cambiamento di rotta per correggere l’attuale società politica. Ma dove sono i frutti di questa attesa e quale incidenza hanno i movimenti e le poche azioni portate avanti in nome della società civile? I fatti  dimostrano che ad una società politica fortemente in crisi non se ne sostituisce un’altra, foriera di progresso civile. Occorre che i portatori di questa istanza di novità lavorino a restituire all’uomo lo spirito del progresso che l’avvento di una cultura senza coscienza etica ha mortificato nel compiacimento ormai diffuso di vedere spente le ideologie propositive e progettuali, favorendo con ciò una società edonistica imbevuta di falso relativismo, persino ormai nella cultura giuridica.

Se il compito della politica è quello che la società occidentale ha faticosamente cercato e definito come democrazia dei diritti e dei doveri nel compito di dare forma e sostanza ad una società “felice”, occorre che il presente, distratto dalla corsa in avanti, non perda il contatto con quell’idea positiva di azione politica che negli ultimi tempi ha subìto attacchi pressanti e che, nonostante tutti, resta ancora il faro di una società democratica.

[NdR – L’intervento è apparso in forma integrale sulla Rivista mensile di cultura “Tempo presente” (n. 385-388 gennaio-aprile 2013). Questa seconda parte è il seguito di quella da noi pubblicata in precedenza]

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