Salari nominali e disoccupazione

La strategia messa in atto dall’Europa di ridurre i salari nominali per rendere più competitive le imprese e ridurre la disoccupazione non è vincente.

Il rimedio classico alla disoccupazione attraverso la riduzione dei salari trascura la doppia natura del salario: costo di produzione per l’impresa, ma reddito per i lavoratori. L’abbassamento dei salari, riducendo il costo del lavoro in rapporto a quello del capitale, esercita meglio un effetto stimolante sulla domanda di lavoro (effetto sostituzione); ma si riduce anche il reddito distribuito alle famiglie che scatena un effetto moltiplicatore nella riduzione della domanda globale, limitando così ancora di più gli sbocchi dei produttori. Di conseguenza, si assiste ad un nuovo indietreggiamento della domanda di lavoro, che rende necessario un nuovo abbassamento dei salari e così via. Una politica di riduzione dei salari rischia quindi, a breve termine, di allontanare dall’equilibrio e di scatenare un processo cumulativo di recessione.

La riduzione dei salari nominali non è il modo corretto di ridurre il costo reale del lavoro. Sarebbe più conveniente ridurre i salari reali elevando i prezzi. Adesso, è precisamente questo che dovrebbe succedere, se la domanda globale aumenta e contemporaneamente esiste una disoccupazione involontaria. In effetti, in ragione della legge dei rendimenti decrescenti, l’aumento della produzione può avvenire soltanto ad un dato costo crescente, e dunque a un prezzo crescente. La pressione della domanda dovrebbe fare aumentare i prezzi, abbassare il salario reale senza toccare il salario nominale e spingere i datori di lavoro a sviluppare l’occupazione.

La teoria del salario di efficienza, sviluppata negli anni Ottanta, va a rafforzare l’idea secondo la quale la riduzione dei salari non ristabilisce l’equilibrio in base al processo supposto dall’analisi neoclassica. Questa teoria poggia sull’ipotesi seguente: la produttività del lavoro può essere una funzione crescente del salario. Si può supporre che la motivazione degli individui sia un elemento importante della loro produttività reale. La produttività dipende dai tempi di lavoro ma anche dallo sforzo realmente prodotto dai lavoratori. Lo sforzo, non essendo definito dai contratti di lavoro ed essendo molto più difficile da misurare e da controllare rispetto al tempo di lavoro, è largamente condizionato dalla volontà dei lavoratori e quindi dalle loro motivazioni.

Si può, peraltro, supporre che la motivazione degli occupati sia in parte funzione della loro remunerazione e della sensazione che essi hanno di essere curati proprio dal loro datore di lavoro. Essere curato può significare: essere pagato bene quanto altri lavoratori che hanno delle qualifiche e un’esperienza equivalenti; vedere la remunerazione progredire regolarmente con l’anzianità nell’impresa; non vedere sistematicamente le condizioni di lavoro rimesse in causa ogni qualvolta il datore di lavoro è alle prese con delle difficoltà, ecc.

Per tutte queste ragioni, è probabile che un aumento delle remunerazioni migliori la motivazione e dunque la produttività dei lavoratori; viceversa, una riduzione dei salari altera la loro motivazione e la loro produttività. Quindi, in periodi di sottoccupazione, l’abbassamento dei salari proposto dall’analisi neoclassica sarà insufficiente per ristabilire l’equilibrio: ogni riduzione del salario deteriora la produttività del lavoro e sposta il punto di equilibrio verso una situazione peggiore. Può avvenire che questo processo converga finalmente verso un nuovo equilibrio, ma con un abbassamento dei salari e dunque dei redditi distribuiti ai lavoratori molto più ampio di quello supposto necessario e sufficiente dall’analisi neoclassica. Così, è sempre più probabile che l’effetto reddito negativo, a seguito di una riduzione del salario, operi sull’effetto sostituzione riducendo la domanda di lavoro al posto di aumentarla, perché il costo del lavoro è più basso in rapporto al capitale, ma il reddito insufficiente provoca una riduzione della domanda globale, limitando così ancora di più gli sbocchi dei produttori.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo insegna Complementi di Politica Economica a La Sapienza di Roma]

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