Elezioni di medio termine, i due volti dell’America

Washington – Si chiudono le elezioni americane di medio termine e gli osservatori politici cercano di trarre le prime valutazioni. Facciamo un breve salto indietro e riepiloghiamo gli avvenimenti che hanno caratterizzato la campagna preparatoria al voto, da molti ritenuto un referendum di verifica sul lavoro finora svolto da Donald Trump.

Si interrompe la tradizione secondo cui, nell’appuntamento di mid-term, l’ex presidente non si adopera contro il successore della parte avversa. In più occasioni, Obama è intervenuto con veemenza contro l’attuale Amministrazione, stizzito dallo smantellamento della sua riforma sulla sanità (Obamacare), dall’annullamento – con le recenti sanzioni all’Iran – degli sforzi diplomatici profusi in passato per recuperare il rapporto con Teheran e dal momentaneo dialogo della Casa Bianca con Kim Jong-un, relegato all’isolamento internazionale durante lo scorso mandato.

Si conferma, invece, il trend generale in base al quale il partito del presidente in carica perda, nel voto di mid-term, terreno al Congresso. Vero è che i Repubblicani possono vantare una ripresa di economia e occupazione, frutto della trumpiana rinegoziazione unilaterale di tutti i trattati multilaterali e della spregiudicata strategia protezionistica sul prodotto interno. Tuttavia, durante la campagna, Trump ha anche dirottato la comunicazione verso la pancia degli elettori, facendo leva su una delle fobie più radicate (e la cinematografia hollywoodiana lo testimonia inequivocabilmente) nell’immaginario collettivo degli americani: il mito dell’alien invasion. L’economia va, ma il presidente non ne sottovaluta il costo, ossia un debito pubblico a livelli piuttosto elevati. Cosa, dunque, può distrarre ed essere più anestetizzante del pericolo di una nutrita carovana di prossimi immigrati irregolari, partita dall’Honduras e in progressiva espansione, man mano che si avvicina ai confini del Paese?

Con il voto di martedì scorso, sono stati rimessi in gioco tutti i 435 seggi alla Camera bassa, 35 seggi su 100 al Senato e 36 cariche di governatorato in altrettanti Stati federali. Molte quote rosa tra i candidati (di più fra i Democratici) e affluenze da record alle urne, sicuramente determinate dalla travolgente natura divisiva del personaggio numero uno sotto esame: queste, le principali note da registrare. Trump è il risultato di una profonda spaccatura nella società americana, ed è a tutt’oggi lì, sullo scranno, a dimostrarlo urbi et orbi. Nancy Pelosi, leader dei Democratici, avrebbe voluto asfaltarlo, facendo rifluire nelle coscienze dei cittadini il sentiment progressista della scorsa Amministrazione. Non è stato così. Come da pronostico della vigilia, Trump ha perso sì la maggioranza al Congresso, ma ha tenuto al Senato. Quanto basta, per scongiurare la minaccia Dem di avvio della procedura d’impeachment a suo carico. E’ sufficiente, infatti, un veto di due terzi della Camera alta, per vanificare ogni iniziativa proveniente, in tal senso, dalla Camera dei Rappresentanti.

Fra le molte donne elette, menzioniamo la democratica Alexandria Ocasio Cortez, la più giovane deputata di sempre al Congresso; altra novità, quella del democratico Jared Polis, rappresentante della comunità Lgbt, sulla poltrona di governatore del Colorado. L’opposizione a Trump, riparte anche da loro. “Ora, lo controlleremo”, ha dichiarato la Pelosi, all’ufficializzazione degli esiti elettorali.

La partita si chiude, dunque, con un sostanziale pareggio, che però obbligherà il Presidente – diversamente da prima – a seguire un modello di confronto politico e istituzionale differente da quello, a lui congeniale, del duello rusticano, per cercare maggior collaborazione anche tra le fila antagoniste.

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