Un piano per l’immigrazione

Al termine di un negoziato lungo e aspro, un po’ tutti i leader europei si sono detti soddisfatti dell’intesa raggiunta  a Bruxelles sulla questione dell’immigrazione. Un comprensibile sospiro di sollievo per essersi evitata una rottura, che sarebbe stata devastante. Ma il peggio è stato evitato a prezzo di un compromesso che, come tutti i compromessi, si presta a interpretazioni e valutazioni anche opposte. E infatti, nelle dichiarazioni degli uni e degli altri, ciascuno ha potuto dichiararsi, ad uso delle rispettive opinioni pubbliche, più o meno vincitore.

Il principale interessato, Conte, si è detto anche lui soddisfatto, e dal suo punto di vista non ha tutti i torti. Qualche risultato l’ha portato a casa, vedremo poi quale, grazie al misto di fermezza e duttilità di cui ha dato prova (va notata a suo favore la buona relazione personale che ha stabilito con Macron, giusto antidoto ai veleni scambiati tra Macron e Salvini). Le opposizioni e buona parte della stampa in Europa hanno invece  abbondato in critiche, alcune anche giuste, ma che non tengono conto che l’Unione non è un impero, non c’è un centro politico unico che decide per tutti (nemmeno Parigi e Berlino, come si vede ogni giorno). Le decisioni sono prese a 28 e sono la sommatoria di interessi ed egoismi nazionali spesso divergenti. Quelli che più ferocemente criticano l’Unione per le sue difficoltà ad agire, sono in genere gli stessi che più si negano a darle gli strumenti necessari per farlo (ciò vale naturalmente per le materie politiche; per quelle economico-commerciali l’Unione ha tutti gli strumenti necessari sin dal Trattato di Roma). Accusare l’Europa di impotenza in certe aree è, dunque, una petizione di principio in cui incorrono anche persone solitamente illuminate.

Al di là dei trionfalismi e delle polemiche strumentali, cerchiamo comunque di capire cosa è avvenuto veramente a Bruxelles. Varie idee contenute nel documento italiano sono state accettate, per cui, come ha detto Conte con un po’ di retorica, “l’Italia non è più sola”. È passato, almeno sulla carta, il principio che chi entra in un Paese di prima accoglienza entra in Europa. La conseguenza avrebbe dovuto essere una piena presa in carico del problema da parte europea, ma così non è stato, o  almeno non del tutto. È passato il rifinanziamento del fondo fiduciario per l’Africa. È stata accettata in principio la proposta di centri di accoglienza eurogestiti in Paesi terzi e in Paesi europei, però su base volontaria, come volontaria resta la ricollocazione dei rifugiati in seno all’Unione. Volontarietà che sarà certo ardua da ottenere. La responsabilità principale della mancata obbligatorietà spetta ai Paesi del gruppo detto di Visegrad. È spontaneo accusarli di egoismo nazionale, ma non mi sentirei di condannarli senza appello: sono piccoli Paesi, a forte identità nazionale, che cercano di difendersi contro le invasioni esterne. Tutt’al più, viene da sorridere pensando agli ingenui entusiasmi di Salvini che pensava di riformare le regole europee con l’aiuto di Orban, cioè proprio di quello che ha condotto l’opposizione all’obbligatorietà che richiedevamo. Per fortuna, credo che Conte e Moavero abbiano chiaro che gli alleati di cui abbiamo bisogno sono ben altri.

Che succederà ora? Conte ha detto: continueremo a combattere. Perché le decisioni concrete del summit siano applicate nei fatti e perché si riformi realmente il regolamento di Dublino. A questo proposito, circola qualche aspettativa sulla prossima presidenza austriaca dell’Unione, ma temo siano illusioni: quali che siano le affinità ideologiche tra Kurz e Salvini, gli interessi di Vienna sono opposti a quelli di Roma. È una lezione che i neo-nazionalisti della Lega dovrebbero alla fine imparare. L’ho scritto più volte, i nazionalismi sono per loro natura conflittuali tra di loro. Possono applaudirsi reciprocamente e convergere nell’insofferenza per i limiti europei e nel razzismo, ma poi sono condannati a scontrarsi (tanto per fare un esempio, cosa pensano Salvini e la Meloni delle idee di Kurz sull’Alto Adige?).

Avendo portato a casa qualche risultato, ma avendo anche esplorato i limiti della solidarietà di certi soci dell’Unione, sarebbe bene smetterla di cercare un alibi europeo per evitare quelle che restano, in definitiva, responsabilità nazionali. Il Governo Gentiloni aveva imboccato una strada ragionevole ed efficace, in modo che il flusso degli immigrati dall’Africa si era radicalmente abbassato. Forse è il momento di andare oltre. A parte la sinistra piagnona e una parte della Chiesa Cattolica, nessuno potrà seriamente attaccarci, meno che mai sul piano europeo, se faremo  ciò che in realtà molti in Europa sperano, cioè fermare il flusso delle migrazioni che da noi tendono a irradiarsi nel resto del Continente. Un articolo di fondo del francese “Figaro” ricorda che, in democrazia, nessun governo può ignorare le preoccupazioni dei propri cittadini che, in Europa, si appuntano per più del 40% sull’immigrazione. E richiama i principali Governi europei ad affrontare il problema alla radice  tenendo come esigenza essenziale quella di bloccare per mare e aria i flussi immigratori e fare guerra spietata ai moderni trafficanti di schiavi, sviluppando in parallelo una adeguata politica di sviluppo nei Paesi di origine.

La chiusura estiva dei porti italiani alle Ong è una misura dolorosa che però va nella giusta direzione, ma non basta. È ora che il Governo, nella sua collegialità, presenti un piano completo per la gestione del fenomeno dell’immigrazione e lo discuta in Parlamento, prendendo dall’Europa quello che l’Europa ci può dare ma non correndo appresso a quello che non può fare, e magari cercando l’appoggio logistico e anche operativo della NATO in Mediterraneo per la guerra agli scafisti. Ma assumendosi le proprie responsabilità interne e internazionali, perché questo è il dovere di un governo serio.

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