Padre padrone (Film, 1977)

Gavino Ledda (1938) è uno di quegli scrittori che in vita loro scrivono solo un libro, perché quello hanno dentro, e anche se tornano ancora a scrivere è solo per approfondire il già detto, per sottolineare le cose importanti che hanno marcato la loro esistenza. Padre Padrone (sottotitolo L’educazione di un pastore) è un romanzo di una forza sconvolgente, pubblicato nel 1975 da Feltrinelli, tradotto in quaranta lingue, capace di ottenere un successo epocale. Il film Ybris (1984) è un’altra sua cosa importante, così come lo sono gli approfondimenti dedicati all’opera della sua vita.

I fratelli Taviani (Paolo e Vittorio scomparso domenica scorsa) prendono il libro – fresco vincitore del premio Viareggio – e con pochi adattamenti cinematografici lo trasformano in un’opera basilare della loro filmografia. La storia si riassume nelle vicende biografiche di Gavino, ritirato da scuola a sei anni, dopo poche settimane dall’inizio della prima elementare, per avviarlo al lavoro di pastore nel supramonte, fino alla sua emancipazione dall’analfabetismo dopo l’incontro con il poeta Franco Manescalchi (Nanni Moretti), compagno di leva, che lo convince a intraprendere gli studi di glottologia a Roma. La crescita di Gavino Ledda, da piccolo pastore analfabeta ad assistente di filologia romanza all’Università di Cagliari, è talmente importante da costruire un romanzo di formazione senza precedenti, che sconvolge lettori e spettatori.  I sardi si arrabbiano per la cattiva rappresentazione della loro terra che compie la pellicola, ma quella presentata è la cultura dell’isola negli anni Quaranta e nell’immediato dopoguerra, retaggio di tempi tribali che vengono poco a poco superati.

L’operazione cinematografica dei Taviani è perfetta, tra dissolvenze e soggettive, piani sequenza poetici e panoramiche montane, tra squarci di mare e piccoli centri abitati, volti di uomini veri, pastori, bambini e contadini del tempo passato. Un ritratto completo e compiuto della Sardegna e di vecchie contraddizioni, girato a Sassari, tra vento e realismo, notti che calano e giorni che cominciano. Sempre uguali, spaventosi e inquietanti, con padri padroni che picchiano i figli e li costringono a lavorare per loro perché un figlio è roba mia e nessuno me lo deve portare via, neppure la scuola. Molte le sequenze indimenticabili di una pellicola importante, ma la più forte è quella della scuola che si vede nelle prime sequenze e sul finale, con quel padre padrone terribile che impugna il bastone e minaccia tutti i bambini di fare la stessa fine di suo figlio. La formazione lavorativa del figlio è realistica al massimo livello, lo spettatore percepisce la paura del bambino, il dolore nei suoi occhi, la voglia di fuga dai monti e il terrore di dover fare quello che gli viene imposto.

La colonna sonora è cupa e per niente tranquillizzante, molta musica popolare che ricorda analoghe composizioni di De André, come la nenia del pastore, o la fisarmonica suonata dal ragazzo per passare il tempo e comunicare con gli altri. La crescita del ragazzo va di pari passo al culto per la roba di verghiana memoria, così come la sua ribellione si concretizza nel finale con il definitivo incrinarsi dei rapporti padre – figlio. La voglia di fuga prima porta il ragazzo a tentare di andare a lavorare in Germania, poi a fare il militare in continente, quindi – dopo l’incontro con il commilitone colto – giunge improvvisa la voglia di studiare, di imparare l’italiano, fino a diventare un professore di glottologia.

Gavino Ledda recita la parte di sé stesso e consegna metaforicamente il bastone a Omero Antonutti – che impersona il padre – prima della sequenza che lo vede irrompere nella classe frequentata dal figlio. Ritroviamo lo scrittore nel finale mentre racconta la sua vita e afferma che per scrivere e lavorare è dovuto tornare a casa, dove sono le sue radici. Bravo anche Saverio Marconi come figlio adolescente e militare che incontra sotto le armi un Nanni Moretti, giovane attore. Padre padrone è un film così importante che nel 2017 – per i quarant’anni dalla sua realizzazione – Sergio Naitza ha realizzato un documentario a tema, presentato al Festival del Cinema di Roma. Inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare.

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Regia: Paolo e Vittorio Taviani. Soggetto: Gavino Ledda (romanzo omonimo). Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani. Fotografia: Mario Masini. Montaggio: Roberto Perpignani. Distribuzione: Sacis International. Direttore di Produzione: Tonino Paoletti. Organizzatore Generale: Grazia Volpi. Produzione: Rai Radiotelevisione Italiana, Cinema srl. Produttore: Giuliani G. De Negri. Aiuto Regia: Marco De Poli. Assistenti alla Regia: Giampiero Cubeddu, Francesco Lizzani. Assistente al Montaggio: Rita Triunveri. Fonico: Giovanni Sardo. Fotografo di Scena: Umberto Montiroli. Costumi: Lina Nerli Taviani. Aiuto Costumista: Giovanna De Poli. Scenografia: Giovanni Sbarra. Mixage. Adriano Taloni. Colore. Cinecittà spa. Musica: Egisto Macchi. Edizioni Musicali: Feeling Record Italiana. Doppiaggio: CD presso stabilimenti Fono Rete. Palma d’Oro e Premio della Critica Internazionale FIPRESCI, Festival di Cannes 1977. Interpreti. Omero Antonutti, Saverio Marconi, Marcella Michelangeli, Fabrizio Forte, Marino Cenna, Stanko Molnar, Nanni Moretti. Location: Sassari, Cargeghe, Convitto Nazionale Canopoleno.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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