Camera di Consiglio

Giustizia al passo di gambero. Come annullare la ratio dell’educazione Premessa. In questo articolo il termine educazione viene volutamente usato nel significato, mutuato dalla lingua inglese, di education, vale a dire una cultura e una conoscenza finalizzate ad ottenere un titolo di studio adeguato alle potenzialità e capacità di uno studente per permettergli di inserirsi nel mondo del lavoro e, si auspica, magari migliorarsi aggiungendo agli originari diplomi e lauree, titoli di specializzazione magari acquisiti in qualche istituto prestigioso e riconosciuto a livello internazionale, eventualmente anche durante una carriera lavorativa, addirittura con un anno sabbatico.

Esattamente il contrario dell’italico concetto di “prendi un pezzo di carta e dopo troverai un lavoro, magari con qualcuno che ti aiuta. Esattamente il contrario della direzione in cui si evolve un mondo globale, dove è sempre più anacronistico vivere, come all’epoca dei Comuni e delle Città Stato, sotto il proprio campanile, su posizioni decisamente fuori tempo, con buona pace di legittime ambizioni che vengono frustrate sul nascere se mai conosciute.

E proprio in questa direzione si colloca la sentenza del Consiglio di Stato che pone seri sbarramenti e limiti ai corsi universitari esclusivamente in lingua inglese. Celebrata dall’Accademia della Crusca, questa sentenza pone interrogativi pesanti non soltanto sulla possibilità per l’istruzione italiana di porsi alla pari con quella di altre nazioni in una prospettiva globale, cercando di incentivare l’arrivo di studenti stranieri, favorendo integrazione e internazionalizzazione ad alti livelli, ma fa anche riflettere su come la giustizia amministrativa rappresenti un grave ostacolo verso lo sviluppo di ogni settore, nel suo costante difendere posizione acquisite nonostante queste siano palesemente fuori dal tempo. In ogni caso tutto ciò risulta essere drammaticamente coerente con il principio di equivalenza del titolo di studio che equipara ogni laurea ovunque e comunque presa, indipendentemente dal punteggio e dall’istituto dove è stata conseguita, altro ostacolo ad una reale competitività, così come altre decisioni volte solo a mantenere lo status quo.

Il problema è più complesso di quanto qui brevemente delineato e riguarda non solo la scuola, bensì un sistema che merita una revisione totale. Alan Friedman nel suo recente, “Dieci cose da sapersi sull’economia italiana”, quasi accidentalmente auspica l’abolizione della giustizia amministrativa; sembrerebbe una boutade o una provocazione, ma viene seriamente da chiedersi quale contributo possa oggi dare un sistema di giustizia che, ricordiamo, ha la sua legge fondamentale datata 1865 e permette ai TAR e al consiglio di Stato di mettere nel nulla provvedimenti presi in autonomia da università, ministeri, amministrazioni locali e anche da organi costituzionali. Pensiamo ad una nomina da parte del CSM annullata dal TAR locale o, sempre in materia scolastica, non dimentichiamo che un TAR ha annullato la bocciatura di uno studente e decretato la promozione in barba alla valutazione dei docenti, basandosi sulle problematiche scaturenti dalla separazione dei genitori. Allo stesso modo la giustizia amministrativa può decidere che l’incarico di primario in una struttura ospedaliera spetta a Tizio piuttosto che a Caio. Ed è ormai nelle mani dei giudici amministrativi la decisione se per essere direttore di un museo sia indispensabile o meno la cittadinanza italiana. Sono almeno cinque ormai le sentenze sull’argomento e non siamo ancora a una decisione definitiva. Con buona pace dell’immagine del nostro Paese e della presunta certezza del diritto. Paradossi? Una squadra di calcio che vince il campionato di serie A può essere composta solo ed esclusivamente da calciatori non italiani, oggettivamente più bravi, ma un importante museo non può assumere il soggetto più qualificato perché tedesco o francese e, magari, laureato ad Oxford o alla Sorbona e specializzato a Harvard .

E adesso siamo finalmente nella situazione in cui un istituto prestigioso come il Politecnico di Milano non può avere un corso in lingua inglese perché un organo di giustizia ha ritenuto discriminatorio limitare l’accesso a coloro che parlano solo italiano. Proviamo a spiegarlo a uno studente finlandese o croato che, diplomato a pieni voti, non può accedere ad un percorso di studi, portando anche il suo contributo, perché non è in grado di parlare la lingua di Dante ma, purtroppo, parla solo quella del suo paese di origine e quella di Shakespeare che è comunque indispensabile per un lavoro che non ha sicuramente una dimensione locale. Concetti che sembrano di difficile assimilazione anche per un imprenditore che, un domani, potrebbe avere voglia di investire in Italia.

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