Sacchetti bio, eco-pasticcio di Palazzo

La scorsa estate, senza alcun cappellino ambientalista ma con l’aiuto dei passanti e del bagnino, ho trascorso molto tempo a raccoglier plastica dal bagnasciuga: per far bene al mare, ai pesci e a me stesso, visto che di pesce ne mangio anch’io. Per questo sono arrabbiatissimo per la figuraccia che l’imposizione dell’obbligo dei bioshopper nei supermercati ha fatto fare ad un comportamento ecologico virtuoso e ad una innovazione tecnologica straordinaria come la plastica compostabile made in Italy.

Per molti Italiani, il No ai bioshopper obbligatori e a pagamento per l’orto-frutta nella grande distribuzione è diventato una questione di principio: un No per principio sacrosanto perché, scava scava, non è un No all’ambiente, all’ecologia, alla maggiore spesa, e nemmeno al fabbricante: è un No all’imposizione obbligatoria di un comportamento che è ‘etico’ e quindi deve essere libero e non può essere coatto. Si è fatto un po’ come con le caldaie ‘a norma’; o con la raccolta differenziata: alla quale i cittadini sono obbligati, e nella filiera della quale lavorano differenziando, non pagati – magari con una riduzione della tassa – ma pagando. C’era una volta ‘chi inquina paga’: qui, a pagare – e per obbligo – è chi non inquina. Questa è la ‘green economy’ all’italiana. Che errore, inquinare la crescente buona disposizione dei cittadini verso l’ecologia con iniziative che la rendono ostile e impopolare.

Per far chiarezza, non è vero che l’obbligatorietà dei bioshopper per l’ortofrutta nella grande distribuzione è imposta dall’Europa: è vero il contrario, perché la direttiva europea 720 del 2015 dice che gli Stati membri possono scegliere di escludere le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi, e quindi esclude questo obbligo proprio per i bioshopper per l’ortofrutta nella grande distribuzione, citati espressamente, che sono di spessore inferiore. Dunque è il governo italiano, e solo il governo italiano in tutta Europa, ad averlo imposto. Ancora: Novamont produce materiale, non sacchetti, e non è l’unico produttore di materiale per bio-shopper consentito dalla nuova normativa; se molti fornitori ai supermercati producono sacchetti in mater-b su licenza Novamont, sul mercato sono presenti altri soggetti, come la tedesca Basf,  e altri che comunque rispettano i termini di legge. L’azienda italiana è tuttavia leader di settore ‘in prospettiva’: perché la legge di conversione in legge con modificazioni del decreto legge 20 giugno 2017 n. 91 aggiunge, al testo originale del decreto, che il quantitativo minimo di materiale biodegradabile presente in questi shopper deve essere, dal 1 gennaio 2018, del 40 per cento; ma che dovrà aumentare al 50 per cento entro il 2020 e al 60 per cento entro il 2021; ed il mater-b è già ora garantito biodegradabile al 100 per cento, come evidenziano le scritte ‘mater-b’, ‘completamente biodegradabile e compostabile’, oltre a quella riportante il nome dell’azienda e quella ‘su licenza Novamont’ che si leggono sui sacchetti già utilizzati dalle maggiori catene della grande distribuzione; mentre i bioshopper non in mater-b di altre catene riportano a volte soltanto l’ok al compostaggio rilasciato dall’ente certificatore. Inevitabile che, in prospettiva, le catene più forti abbiano preferito assicurarsi il mater-b. Ma nulla vieta agli altri produttori di adeguarsi nei lunghi tempi consentiti dalla norma ed essere competitivi.

Quel che è vero è che ad oggi l’obbligo imposto dal decreto italiano ‘avvantaggia’ solo un genere di prodotto variamente producibile – la plastica compostabile in generale, non solo il ‘mater-b’ di Novamont, rispetto a quella non compostabile, o alla retina ‘vintage’ riciclabile, oggi tornata in auge anche nella ‘eco’ Germania – ma non un’azienda in particolare. Ma lo fa senza una ragione decente, cioè legata ad un comportamento o ad una procedura ‘ecologicistica’: perché non è che il sacchetto col quale le mele arrivano sulla tavola venga utilizzato per incartare le bucce che finiscono nell’organico della differenziata domestica. E infine, ma non per ultimo, lo fa a spese del consumatore: il quale già paga, alla cassa e in scontrino, lo shopper della catena, che è già obbligatoriamente ‘bio’; ma ha la libertà di sostituire questo shopper con la borsa portata da casa; attuando, e volontariamente, un comportamento ancora più eco, quello del riciclo della borsa stessa, mentre con quello per l’orto-frutta non può farlo. Insomma, l’imposizione dell’obbligo ha inquinato la purezza dell’intento ecologista. E i consumatori italiani hanno percepito la cosa come vessazione e sospettato il business occulto che continua a dipingere sui social lobby e congiure.

Peccato. Peccato perché gli Italiani sono sempre più consapevoli dell’importanza dell’ecologia e sempre più disposti a comportamenti ‘green’, anche pagando, ma non per obbligo, di tasca propria;  e da un obbligo del genere finiscono scoraggiati nei confronti di un mondo ‘green’ da cui sembra sciabordare una ‘economy’ grottescamente  antiquata, ‘avida’, ‘pre-crisi’. Peccato perché la costosa obbligatorietà dei bioshopper ha infilato nel tritacarne mediatico un’innovazione tecnologica straordinaria, un’innovazione made in Italy che se adottata in tutto il mondo potrebbe metter fine al disastro ambientale delle isole di plastica degli oceani, plastica che finiamo per mangiare attraverso il pescato. Peccato, perché con l’iniziativa che ha portato all’obbligatorietà onerosa dei sacchetti bio si è scaraventata dalla parte sbagliata l’immagine di un’azienda come Novamont, che è fatta di ricercatori, tecnici e operai d’eccellenza, e che in questi anni difficili per le grandi aziende nazionali ha invece rilanciato – proprio grazie alle sue innovazioni tecnologiche, modernamente ‘ecologiche’ – la grande chimica italiana. Peccato, perché in un Paese sensibile ai consumi come il nostro le aziende possono esprimere il proprio valore solo e semplicemente attraverso la qualità dei loro prodotti e la capacità dei consumatori di apprezzarla liberamente; e non c’è bisogno di iniziative di altro genere. E peccato per la buona fede, anche ‘ecologista’, degli Italiani: tradita – speriamo per l’ultima volta – da un altro eco-pasticcio di Palazzo.

©Futuro Europa® Le immagini utilizzate sono tratte da Internet e valutate di pubblico dominio: per segnalarne l’eventuale uso improprio scrivere alla Redazione

[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]

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2 Commenti per "Sacchetti bio, eco-pasticcio di Palazzo"

  1. Fernanda Farachi | 8 Gennaio 2018 a 15:14:43 | Rispondi

    Buongiorno. Mi preme puntualizzare qualche aspetto tecnico. Vorrei precisare che la percentuale che deve crescere negli anni non si riferisce alla biodegradabilità. Infatti la legge in questione prevede che i sacchetti per frutta e verdura siano conformi allo standard EN13432 da subito, e questo vuol dire che devono essere completamente biodegradabili in compostaggio (non avrebbe senso una biodegradabilità a percentuali crescenti). Invece la percentuale che il provvedimento prescrive debba crescere negli anni, dal 40% in su, è quella del contenuto di materie prime rinnovabili, cioè quella percentuale che indica il grado di sostituzione di materie prime di origine petrolifera con materie prime di origine rinnovabile (vegetale, ad esempio), per fare i suddetti sacchetti.
    Le due caratteristiche rinnovabilità e biodegradabilità sono distinte e hanno significati diversi. La biodegradabilità si riferisce alla prestazione, al comportamento del materiale in un ambiente specifico: nel caso di questi sacchi essi devono essere biodegradabili nell’ambiente del compostaggio. La rinnovabilità invece è riferita alle materie prime impiegate. Una più alta percentuale di rinnovabile va nella direzione di ridurre la CO2 fossile immessa nell’ambiente quando il materiale termina il suo ciclo di vita e viene biodegradato (o bruciato se non finisce in compostaggio). Inoltre, è importante notare che le due caratteristiche sono indipendenti: esistono infatti materie plastiche di origine petrolifera che sono completamente biodegradabili ed altre di origine rinnovabile che non sono affatto biodegradabili, a dispetto della loro provenienza “vegetale”. ll provvedimento di legge specifica pertanto le due caratteristiche in modo separato: da una parte si richiede la conformità dei sacchettini ai requisiti di compostabilità/biodegradazione completa dello standard EN13432, dall’altra è richiesto che detti sacchettini incrementino negli anni il loro grado di rinnovabilità, cioè l’uso di materie prime non petrolifere.
    Infine, questi sacchetti possono benissimo essere utilizzati per la raccolta differenziata dell’umido, anche se un pò più piccoli di un sacco della spesa. Perché no?
    Spero di averle dato un contributo utile. Cordiali saluti.

  2. Francesco Paolo Mancini | 9 Gennaio 2018 a 14:12:35 | Rispondi

    Ringrazio per la puntualizzazione tecnica, da ‘addetta ai lavori’. Purtroppo il problema avvertito dai cittadini-consumatori e al centro dell’articolo, ovvero l’obbligo all’acquisto di un determinato tipo di sacchetto, rimane irrisolto.

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