Catalogna. E adesso?

Le elezioni politiche in Catalogna non hanno dato un risultato univoco, inequivocabile. Il partito più votato è stato quello unionista di “Ciudadanos”, che però non è in grado di formare un governo. I tre partiti indipendentisti hanno, nel loro insieme, riconquistato la maggioranza del Parlamento ma hanno perduto due seggi e hanno avuto meno voti che nel 2015; e la formazione di un governo dipende dall’accordo del più radicale dei tre, il CUP (Candidatura d’Unitat Popular), che è favore di una strategia estremista. D’altra parte, il precedente capo del governo Puigdemont e cinque ministri sono legalmente profughi della giustizia e, se rimettono piede in Spagna, rischiano l’arresto.

Una situazione complessa, insomma, con una società fratturata e divisa in due tronconi più o meno equivalenti. Sanarla richiederà tempo, pazienza e una speciale volontà di compromesso dalle due parti.

Mariano Rajoy si aspettava probabilmente una sconfitta, anche di misura, degli indipendentisti. Invece sconfitto è stato il suo partito, il Partito Popolare, che è sceso a una percentuale infima. Le sue prime dichiarazioni sono state politicamente e istituzionalmente corrette: mano tesa alla Catalogna per il dialogo, ma con il governo che sarà formato, non con Puigdemont. E ha ribadito una vecchia posizione: negoziato “ma nell’ambito della Legge, cioè della Costituzione”.

Dialogo per cosa? Come commenta il più autorevole quotidiano spagnolo, El País, non si è imposta chiaramente nessuna soluzione. L’indipendenza unilaterale non ha un consenso chiaro. Ma l’unionismo puro è in minoranza. Dunque, il buon senso e la ragione debbono spingere tutti a cercare una soluzione intermedia che garantisca una più larga autonomia alla Catalogna ma la conservi nel quadro di una Spagna eventualmente federale. La strada da percorrere è però lunga e certamente irta di ostacoli.

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