Sud Sudan, quattro anni di guerra

Il 15 Dicembre ha segnato il quarto anno di guerra civile in Sud Sudan su uno sfondo di rivalità etnico-politica tra il Presidente Kiir e il suo ex numero due. Decine di migliaia di morti e milioni di sfollati: le Nazioni Unite lanciano un nuovo allarme.

“Si tratta della più grande crisi che coinvolge rifugiati in Africa”. Mentre il Sud Sudan entra nel suo quinto anno di guerra civile, le Nazioni Unite suonano il campanello d’allarme e chiamano le parti in causa, così come la comunità internazionale, ad agire nei confronti di una crisi umanitaria molto critica. “Bisogna fare pressione sugli artefici di questo sanguinario conflitto, conflitto che in quattro anni ha sradicato un terzo della popolazione del Sud Sudan. Un numero incalcolabile di abitanti è stato massacrato o ferito. Un’azione urgente e concertata dagli attori regionali e internazionali è oggi imperativa, prima che sia troppo tardi”, ha dichiarato in un comunicato Filippo Grandi, Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite (HCR). Paese più “giovane” del mondo avendo acquisito l’indipendenza solo nel 2011, il Sud Sudan è coinvolto dal 2013 in un conflitto nato dalla rivalità tra il Presidente Salva Kiir e il suo ex vice-Presidente Riek Machr, liquidato dopo aver esternato la sua intenzione di correre per la Presidenza della Repubblica. Provenienti entrambi dallo stesso Partito politico (il Movimento popolare per la liberazione del Sudan che ha portato il Paese all’indipendenza), i due uomini appartengono però anche a due etnie diverse, i Dinka e i Nuer, cosa che ha riacceso antichi dissensi.

“Il Mondo non può accontentarsi di guardare, mentre i popoli del Sud Sudan sono terrorizzati da una guerra assurda”, sottolinea il capo dell’HCR. Secondo l’Agenzia umanitaria delle Nazioni Unite, i sei Paesi confinanti vicini al Sud Sudan (essi stessi preda dell’instabilità e degli spostamenti su larga scala dei loro cittadini) ospitano più di due milioni di rifugiati, ai quali potrebbe aggiungersi quest’anno un altro milione. All’interno del Paese, sette milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari di base. L’ONU ha annunciato la scorsa settimana il rinnovo della Minuss, la sua missione di mantenimento della Pace nel Sud Sudan ma non più per un anno, solo per tre mesi . L’obbiettivo è quello di rilanciare il processo di Pace  e completare “l’esame strategico della Missione” che conta su 17000 uomini tra soldati, poliziotti e civili. Secondo Roland Marchal, ricercatore  e specialista dei conflitti in Africa sub-sahariana, la missione dei Caschi Blu avrà avuto il merito “d’internazionalizzare il problema e mostrare che le Nazioni Unite c’erano”. Ma per Marchal i benefici si fermano qui: “ Sin dall’inizio, sei anni fa, questa operazione non ha avuto a disposizione abbastanza strumenti, non ha assolutamente pensato che il mandato potesse complicarsi in questo modo, che il conflitto si sarebbe insabbiato e che la necessità di protezione dei civili sarebbe diventata impellente”.

Il ricercatore denuncia anche “la cecità e l’ingenuità” della comunità internazionale, spiegando così la dilatazione del conflitto nel tempo. “Per anni c’è stata una grande illusione collettiva. Un certo numero di questioni politiche però sono emerse già nel 2005 con la firma di un accordo di Pace generale che era lontano dal risolvere tutti i dissensi esistenti tra i ribelli del Sud”, spiega Marchal, aggiungendo che il conflitto avrebbe dovuto essere seguito con la stessa cura di quello che ha tenuto per tanto tempo occupata la comunità internazionale nel Darfur. L’accecamento si è naturalmente prolungato all’indipendenza del Sud Sudan nel 2011. Abbiamo assistito ad una vera ubriacatura  di entusiasmo tra esperti e donatori sul fatto che la coppia Kiir/Machar avrebbe funzionato. Molti soldi sono arrivati dall’estero e questo ha creato un apparato di Stato fittizio. Tutti i ministeri davano la sensazione che si stesse creando uno Stato, ma non era che un impulso straniero che non aveva il potere necessario per pesare sulla politica interna. Il risveglio è stato brutale.

Lo scorso Novembre gli Stati Uniti hanno minacciato di prendere misure di ritorsione nei confronti del Governo sud-sudanese se questo  non avesse messo fine alla guerra. L’Ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, dopo una visita in Sud Sudan per mettere in guardia il Presidente Kiir, ha detto che si doveva passare ai fatti, le parole non bastavano più. La natura delle sanzioni paventate dagli Stati Uniti non è stata però precisata. Nel 2016 Washington aveva tentato, senza successo, di fare pressione agitando lo spettro di un embargo sulle armi e su sanzioni internazionali. “Un’uscita rapida dalla crisi saprebbe di miracolo”, deplora Roland Marchal, temendo che solo un altro intervento militare interno possa “risvegliare” la comunità internazionale e far si che si impegni efficacemente sul territorio. Nell’attesa, il Sud Sudan continua a svuotarsi. I sei Paesi limitrofi – Etiopia, Sudan, Uganda, Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana – hanno mantenuto l’apertura delle proprie frontiere, malgrado un flusso sempre crescente di rifugiati e una decrescita lineare delle risorse finanziarie. Il Piano regionale tra agenzie di aiuti ai rifugiati del Sud Sudan non è finanziato che per il 33% mentre la maggioranza dei rifugiati è esposta a malattie, alla penuria di viveri, de-scolarizzata e senza casa.

L’Alto Commissario Filippo Grandi chiama tutti gli attori del conflitto a trovare una soluzione politica avvalendosi sul successo dell’High Level Revitalization Forum, per mettere fine alla sofferenza dei rifugiati del Sud Sudan e al massacro di innocenti. Presieduta dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, questa iniziativa di Pace in Sud Sudan,presentata il 12 Giugno 2017, è destinata a ridare linfa ad un tentativo di accordo abortito nel 2015.

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