Zimbabwe, Mugabe lascia dopo 37 anni

Scende dal trono presidenziale, dopo 37 anni, uno dei più anziani capi di Stato al mondo: Robert Mugabe, novantatreenne, ex leader – fino a pochi giorni fa incontrastato – dello Zimbabwe, un tempo tra i Paesi più ricchi del Continente africano.

La sua storia ripercorre la medesima parabola di molti altri personaggi acclamati eroi e divenuti a loro volta dittatori sanguinari. Il Mugabe giovane è un insegnante impegnato nella lotta per l’indipendenza della sua terra, quella ex Rhodesia sottomessa allo sfruttamento coloniale britannico e al regime bianco fondato sull’apartheid, instaurato da Ian Smith. Conduce la propria battaglia politica per l’affermazione dei diritti della maggioranza nera, abbracciando il marxismo e subendo la forte influenza del Mahatma Gandhi e del movimento indipendentista indiano. Imprigionato nel 1964 per la sua attività politica, consegue durante la detenzione ben due lauree. Insegna, si sposta all’interno del Continente nero, fino ad assumere in Mozambico il comando dell’ala paramilitare dell’Unione del Popolo Africano dello Zimbabwe (ZANU) e successivamente l’intera leadership del partito.

Nel 1980, conclusasi la fase storica del dominio bianco di Smith, Mugabe vince le prime elezioni nello Zimbabwe libero e ricopre la carica di primo ministro. Una volta in sella, non smonterà più da cavallo. Nel 1987, è eletto presidente, perpetuando fino ai giorni nostri un ininterrotto esercizio del potere.

Crea inizialmente infrastrutture pubbliche, come scuole e ospedali, per rendere più accettabili le condizioni di vita della propria gente, ma la trasformazione è dietro l’angolo. La scintilla che ne rivelerà le effettive inclinazioni è, come sovente accade in questo genere di storie, la ribellione della provincia dissidente del Matabeleland, terra del suo ex alleato di guerra Joshua Nkomo e dell’etnia minoritaria Ndebele. La repressione attuata da Mugabe sarà feroce e causerà oltre 20 mila morti ammazzati. La piega tirannica trova sempre più terreno fertile, sconfinando nell’ossessione tipica del folle che, una volta assaggiata la droga del potere, vede dappertutto nemici e minacce da eliminare senza indugi. Riduce in modo sostanziale l’analfabetismo generale, ma le risorse minerarie del Paese alimentano nel suo governo il germe della corruzione: la mala gestio che ne deriva sarà la porta per l’inferno e il disastro economico. Da solo nella stanza dei bottoni, il presidente trascina lo Zimbabwe in altre rovinose sventure: ricordiamo il dispendioso intervento militare nella guerra civile della Repubblica democratica del Congo e il fallimento della riforma agraria nel 2000.

Comincia ad affacciarsi un partito d’opposizione, quello di Morgan Tsvangirai, e la persecuzione politica conosce una nuova e intensa stagione. Mentre l’ultima risorsa del Paese, l’agricoltura, va a scatafascio, lo Zimbabwe viene messo in ginocchio da una super inflazione, da cui non si risolleverà mai più. Povertà, disoccupazione al 90%, Aids e siccità fanno il resto. Il Presidente è internazionalmente isolato e scarica le colpe su un presunto complotto occidentale. I venti gli stanno girando a sfavore definitivamente.

Famoso per la frase “Può destituirmi solo Dio”, Mugabe è l’esempio di come il potere metta a nudo l’animo umano, mostrando ciò che ognuno di noi – al suo cospetto – potrebbe essere o diventare. Il lato oscuro dell’oppresso a sua volta oppressore, della vittima che diviene boia, del pacifista col sangue agli occhi: questo è il contagio che subiscono o cercano deliberatamente gli uomini di potere, quelli che hanno scelto di non condividere nulla con nessuno, per tenere il dominio e il controllo tutto per sé, in fondo consapevoli della pendente condanna a vivere da soli e a morire probabilmente male e tra gli anatemi del resto del mondo.

Mugabe non è stato deposto da Dio: si è dimesso, dopo sei giorni di tira e molla. Lo ha annunciato al Paese in festa Jacob Mulenda, presidente del Parlamento della capitale Harare, un tempo nota come Salisbury. L’ex leader avrà, come da copione, trattato per un salvacondotto e una buona uscita per sé e famiglia. Finisce sempre così, quando non li giustiziano. Il problema, ora, è che – ad interim – il suo posto andrà al vicepresidente, deposto dallo stesso Mugabe, Emerson Mnangagwa, soprannominato “il coccodrillo”. Un nomignolo che, in ambito africano, è tutto un programma.

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