Lo Jus soli

Qualche anno fa, commentando l’invito del Presidente Napolitano a prevedere a una legge diretta a riconoscere la cittadinanza in Italia a bambini nati o cresciuti nel nostro Paese, avevo represso un garbato dissenso, o meglio un “distinguo”. Il dissenso veniva da varie considerazioni e la prima è che lo Jus sanguinis è nella nostra tradizione giuridica, da Roma in poi, tanto che lo riconosciamo agli italiani nati e residenti all’estero, talvolta di seconda o terza generazione.

L’automatismo legato al luogo di nascita è invece proprio di quei Paesi, quasi tutti quelli del Continente americano, che sono stati e in parte continuano ad essere Paesi d’immigrazione, interessati a “fissare” sul loro suolo quelli che vi nascono. Però sin da allora mi rendevo conto che l’Italia è diventata ormai un Paese d’immigrazione. Non potevo ignorare il problema, a cui favore militano evidenti ragioni di umanità e di riconoscimento dei Diritti Universali. Consideravo a quel tempo, perciò, che fosse in principio giusto riconoscere la cittadinanza a chi è nato in Italia o vi è venuto da piccolo e vi è poi cresciuto, ma che era necessario circondarla di condizioni e cautele, il cui obiettivo deve essere quello di non snaturare la nostra cultura, il nostro modo di vivere, i nostri principi. La Legge votata dalla Camera nel 2015 conteneva in effetti condizioni e limiti, forse non sufficienti.

Detto questo, l’oscena gazzarra inscenata al Senato dalla Lega e l’opportunismo dei 5 Stelle mi hanno profondamente rivoltato. Stupido in particolare il commento dell’indecente Grillo: “Pensino piuttosto ai problemi del lavoro”, come se un Parlamento non avesse il diritto e il dovere di legiferare su temi differenti tra loro. Staremo ora vedere cosa succederà in Senato, dove il centro-sinistra ha numeri molto più risicati che alla Camera. La politica italiana è infatti ridotta, per colpa di alcuni, a una indegna “cagnara” dove principi e ragioni si perdono e fa premio solo il più squallido e bieco calcolo elettorale.

Riassumiamo: penso che riconoscere la cittadinanza ai circa 800.000 bambini stranieri (in grande maggioranza extraeuropei) sia ormai un dovere di civiltà e un mezzo per compensare la progressiva denatalità italiana. Bisogna però assicurarsi, nei limiti del possibile, che questi eventuali nuovi cittadini, e quelli che lo divenissero in futuro, siano formati alle nostre regole civili e le adottino pienamente. Non si tratta solo di non commettere crimini, ma di fare propria una cultura e un modo di vivere. Per questo, se la Legge dovesse essere emendata al Senato, suggerirei alcuni adattamenti: il principale dei quali consisterebbe nel concedere la cittadinanza al diciottesimo anno d’età, in modo che sia l’interessato a chiederla in piena coscienza e conoscenza di causa, e non i genitori. Ciò servirebbe tra l’altro ad allungare i tempi di assorbimento da parte degli stranieri della nostra civiltà e quindi a facilitarne l’integrazione.

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