Il cielo sopra Piombino (Film, 2017)

Stasera mi sono visto Il cielo sopra Piombino di Stefano Simone, che ho scritto e sceneggiato, apprezzando i miei testi, mai così belli prima che venissero letti da Federico Guerri. Proprio per questo non posso scrivere una recensione, sono troppo coinvolto in un progetto che ho fortemente voluto. Mi limiterò a un giudizio da spettatore critico, che analizza pregi e difetti di un’opera genuina, fresca, persino naif, che trasuda passione.

Musica suggestiva di Federico Botti, con tre canzoni che rispecchiano l’anima piombinese, marinara e siderurgica. Ben amalgamate prima dei titoli di coda le foto di Riccardo Marchionni che vanno dal bianco e nero al colore, tra dissolvenze incrociate in un rapido alternarsi di immagini.  Interprete ispirata Dargys Ciberio, che conduce gli spettatori a passeggio per le vie della vecchia Piombino, tra ricordi d’un passato siderurgico, calette a strapiombo sul mare, scogliere cittadine e piazze che fendono le acque come la prua di una nave. Molte sequenze d’epoca: un carnevale anni 70, uno sciopero ai tempi della vecchia crisi quando lo stabilimento era ancora Lucchini – la durata può sembrare eccessiva ma è pensata per una città in lotta per riconquistare il diritto al lavoro – poi Piombino contro Brescia ai tempi della serie B e molte sequenze in altoforno del primo Novecento.

Piombino si mostra allo spettatore tra immagini e parole, in un mix di degrado e bellezza di pasoliniana memoria, tra citazioni cinematografiche e ricordi, poesia e letteratura. Non vi aspettate un film turistico, perché Il cielo sopra Piombino vuol essere un documentario per far pensare al tempo perduto, senza limitarsi alla nostalgia e al rimpianto, ma con la mente protesa al futuro. Leitmotiv sono le cose che cambiano e non conservano il sapore del passato, un mostro d’acciaio silenzioso che non scandisce più i ritmi del tempo e le giornate familiari, i ricordi degli anni Sessanta e Settanta quando tutto era più genuino e spontaneo. Non è soltanto un film su Piombino, ma un lavoro sulla provincia che cambia, sulla vita degli operai che non è più la stessa, sulla società in rapida evoluzione. Uno spaccato di storia sentimentale, dal dopoguerra agli anni del boom, passando per il calcio di paese prima della televisione, per le sfide a biliardino e le lunghe giornate passate al mare, mangiando cozze al limone, in un ristorantino di una spiaggia di periferia.

Neorealismo rosa, Casotto di Citti, Umberto D di De Sica, ma anche la poesia di D’Annunzio, Pascoli (L’ora di Barga apre il film), Pavese, José Martí e Cabrera Infante. Per accorgersi infine che si ritrova il sapore del passato andando verso il sud del mondo, magari all’Avana, in una spiaggia non turistica, o in piazza della cattedrale a mangiare una granita fatta di ghiaccio tritato proprio come nell’Italia degli anni Sessanta.

Buona la regia di Stefano Simone, che usa la macchina a mano per conferire realismo alle immagini, ma è capace anche di poetici piani sequenza e di dissolvenze in controluce. Fotografia lucida e intensa che racchiude il sapore di mare e acciaio, salmastro e polvere di carbone. Montaggio che poteva essere più curato, valorizzando la parte musicale come separazione tra le diverse narrazioni poetiche che tracciano il percorso del documentario. Un film da vedere.

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Regia. Stefano Simone. Soggetto e Sceneggiatura: Gordiano Lupi. Fotografia e Montaggio: Stefano Simone. Fotografie di Scena: Riccardo Marchionni. Musiche: Federico Botti. Riprese Aeree: Paolo Franchini. Interpreti: Dargys Ciberio, Laura Lupi.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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